martedì 18 gennaio 2011

Racconto: Mussolini - di Valerio Varesi

Oggi inserisco un racconto inviatomi da Valerio Varesi che ringrazio davvero di cuore per la sua disponibilità. Si tratta a mio modesto avviso di una storia dall'intensità straordinaria (per non parlare di quanto alcune osservazioni siano in queste ore più attuali che mai).
Valerio non ha certo bisogno di presentazioni. Dovendo immaginare una classifica italiana credo sia il mio autore noir preferito, ed è per questo che sono particolarmente contento di essere riuscito a portare qui su Blogolonelbuio un suo contributo.
 


MUSSOLINI



Del fatto di Bocchi se ne parlava ancora dopo molti anni e ce n’erano più versioni che carte da gioco. Siccome tutti lo raccontavano alla loro maniera, in definitiva non ci si capiva più niente. Osvaldo che si era preso la colpa, uscito di galera se n’era andato nel modenese a lavorare alle ceramiche e nessuno l’aveva più visto. I suoi compagni non ne vollero mai sapere di parlare e anche loro si persero per strade differenti. Nemmeno si era più ucciso il maiale tutti assieme, visto che la cooperativa aveva messo su il macello ed era più comodo portare la bestia lì, pagare il fio, e ritirare poi la roba bell’e fatta. Ma ogni tanto qualcuno tirava fuori Bocchi anche per un semplice paragone. L’hanno infilzato come Bocchi… C’ha più buchi di Bocchi… Si faceva presto a tornare sull’argomento. Ci si scherzava e ormai si inventavano fole apposta. Ma una sera che Zurlini l’aveva sparata più grossa, era saltato su Ottorino e gli aveva fatto la ramanzina. Dopotutto, in quella storia, uno ci aveva rimesso la ghirba e in tanti si erano rovinati. Lui la conosceva bene perché suo zio era uno di quelli che c’erano e l’avevano anche chiamato a testimoniare al processo. Però la verità non si era saputa del tutto neanche lì perché c’entravano un mucchio di cose: la politica, le donne, vecchie rogne e i rancori che si tira dietro la guerra. Detto questo, Ottorino si era preso una pausa per buttare giù un altro bicchiere prima di stupire tutti dicendo: “La faccenda è cominciata quando hanno ucciso Mussolini”.

Qualcuno l’aveva mandato a cagare tra i tavoli del bar dell’Orietta. Mica potevano ricordare tutti Mussolini. I più vecchi, forse. Sta di fatto che Mussolini era il maiale nero più bello che avessero mai macellato in val Termina. Baldo l’aveva comprato alla fiera di San Rocco a fine estate, tirandolo fuori da una nidiata di dieci perché già da piccolo comandava su tutti. Quindi l’aveva lasciato arare col grugno in lungo e in largo il bosco di Villanuova che aveva sotto una spanna di ghianda e Mussolini era ingrassato come una camera d’aria. A San Martino, quando i norcini avevano da girare più dei cani da caccia, Baldo non si decideva ancora dopo diciotto mesi di pastura. Pensava di tirarlo fino alla soglia dei due quintali e s’immaginava continuamente il grasso profumato che si andava ispessendo, la carne che cresceva. Calcolava a occhio il numero di bondiole, salami e soppressate che si sarebbero ottenute e ogni volta concedeva un’altra settimana di vita a Mussolini. E poi c’era l’orgoglio di avere una bestia così. I negozianti l’avrebbero comprato seduta stante e ogni tanto ci provavano venendo a vederlo e facendolo prillare a pacche nel culo per guardarlo meglio finché non si ribellava e cominciava a girare in tondo col suo verso stridulo.

“Veh, Mussolini…”

Dall’Orietta non si sentivano nemmeno più le carte cadere sui tavoli.

“Ma Baldo era fascista?” chiese il commesso del consorzio agrario che era venuto a stare in paese da poco. Gli rispose una risata.

Baldo era stato partigiano nel distaccamento don Pasquino della quarantasettesima Garibaldi comandato da Osvaldo. Comunista da sempre. Come gli altri che erano lì quel giorno e mica potevano immaginare che i norcini si tirassero dietro uno di fuorivia più giovane, uno di Corniglio che aveva trafficato con la brigata nera. E poi, nel ’52, le passioni erano ancora carne viva e in molti c’avevano i moschetti pronti in solaio. Togliatti infiammava le piazze e la polizia fascista faceva macelli. C’era poco da ridere, allora.

Fatto sta che Baldo aveva chiamato il maiale Mussolini in spregio al duce. “Un nimel cmè lu”, un maiale come lui, diceva ammirandolo. Più s’ingrossava, più diventava forte, più si mostrava prepotente nello stabbio, più c’era gusto ad ammazzarlo. Anche se la faccenda andava per le lunghe e ormai stava arrivando la fine di novembre con la neve che era già venuta a sporcare le strade un paio di volte senza fermarsi.

“E’ proprio il ritratto del duce” diceva Baldo agli altri. “C’ha la testa grossa come lui”.

“Testa di cazzo” sibilava Guarnieri che era il più incarognito di tutti per via del padre ammazzato dai fascisti.

“Ho sempre detto che è una storia di politica” alzò la voce Rocchi. “Una storia tutta politica” ribadì.

Ottorino scosse la testa.

“Le cose non hanno mai un verso solo” borbottò. “Nei temporali, a far danno, non c’è solo l’acqua…”

“Sto con quello che è saltato fuori al processo” ribadì Rocchi.

“I processi non la raccontano mai tutta. Prendono una piega e ci vanno dietro: è più comodo” ribatté Ottorino con scetticismo. “Non hanno parlato di quella storia di donne…”

Se ne parlava nelle osterie anche il alta val Parma, ma più che altro erano pettegolezzi, sussurri. Però di quelli insistenti come la musica dell’organino della sagra. Quando Bocchi era stato ammazzato sotto il portico di Baldo e le chiacchiere avevano cominciato a girare, si diceva che Osvaldo s’era presa una colpa non sua e che c’entravano la politica e le donne. Poi, dal modo in cui era stato ammazzato, si capiva che tutto quello non bastava e che in mezzo dovevano esserci state anche altre rogne rimaste a lungo a covare. Bocchi, infatti, sembrava un San Sebastiano. Gli avevano trovato almeno una ventina di buchi fatti con l’osso del cavallo che serve per annusare i prosciutti stagionati, tanto che sembrava l’avessero davvero saggiato da capo a piedi. Il colpo mortale, però, ce l’aveva nel petto: una pugnalata vera, di coltello, dritta al cuore come avevano fatto con Mussolini e tutti i maiali passati all’arma bianca dei norcini.

Parlandone a babbo morto, va detto che Bocchi se l’era un po’ cercata. Se vai a macellare un maiale a casa dei comunisti nel ’52, e c’hai un passato nero, come minimo te ne stai zitto. Ma Bocchi era così, uno che non si rassegnava al fatto del tempo. O forse c’era andato apposta. Qualcuno la chiamava fedeltà, altri idiozia. Certo non era stata una gran mossa quella di far l’offeso e parlare a mezza voce quando a Mussolini era toccato di morire gemendo. Già gli altri l’avevano fiutato molto prima, quando Osvaldo aveva cominciato a tirare madonne rivolgendosi al maiale con un mucchio di frasi feroci.

“Adesso ti impicchiamo per i piedi Mussolini… Qui è come in piazzale Loreto… Spezziamo le reni al testone… Stasera ci mangiamo il tuo sangue fritto… In culo alla brigata nera!”

A Bocchi erano già scappate due o tre parole che erano finite negli orecchi di Guarnieri.

“Te, mi stai andando su per una braga” gli aveva detto con un ringhio. Ma poi la cosa era finita lì perché Mussolini aveva cominciato a strepitare sul prato quando Baldo l’aveva preso per le orecchie e gli gridava: “Sta fermo rotto in culo d’un duce!” mentre “al long”, Brighenti, un norcino alto con la faccia triste di Manolete e la sigaretta Alfa che gli pendeva perennemente da un angolo della bocca, infilava l’uncino in gola alla bestia che strillava come un perno grippato tirando indietro, tanto che “al long” si era piegato tutto come un ramo di salice.

L’altro norcino, Brenno Casoni detto “puleggia” perché era tondo e rapido che sembrava il volando della trebbiatrice, gli aveva alzata la zampa anteriore destra e gli aveva infilato sotto il lungo coltello “corador” fino al cuore. Mussolini era crollato immediatamente sul grasso della pancia. L’avevano lasciato per un po’ a sbattersi sull’erba guazza in un laido coro di insulti e di cancheri rabbiosi.

“Crepa Mussolini!” gridavano contro il povero maiale preso a metafora.

Bocchi era rimasto zitto anche al momento di tagliare le mezzene. Li aveva lasciati sfogare nell’aia, tra vino e sangue che avevano lo stesso colore. La bestia era stata impiccata per i piedi ai pioli dello scalone del fienile, poi squartata e sgozzata affinché il sangue colasse tutto dentro il paiolo di rame. Quindi era stata svuotata delle interiora che sarebbero servite per la trippa e per contenere la carne dei salami, poi erano stati tolti gli altri organi. Baldo aveva sollevato il fegato: “Stasira eg magnema al fideg!” Stasera gli mangiamo il fegato. A Mussolini, quell’altro, naturalmente.

Bocchi aveva incassato in silenzio. Si sentiva già un sorvegliato speciale e gli sguardi lo tenevano sotto tiro come carabine. Così avevano tagliato il maiale, che della bestia non si buttava via niente. Neanche le ossa, prima leccate ben bene dai cani e poi vendute a uno che andava di aia in aia a raccoglierle per farci il concime.

Sul bancone si erano così accumulati i pezzi nobili e le frattaglie: i salami fatti coi ritagli pregiati, la coppa col sopraspalla, la pancetta con la parte più grassa sottopelle, la soppressata con gli scarti più grassi cotti fino a scindere lo strutto e soprattutto i prosciutti con le cosce rifilate e guarnite di sugna. Era stato allora che tutto era precipitato. Guarnieri li aveva sollevati come trofei e aveva esclamato: “Guardateli, non sembrano Mussolini e la Petacci?”

Non era chiaro quello che aveva detto Bocchi in quel momento. Al processo era saltato fuori solo che si trattava di un grave insulto, ma le testimonianze furono molto confuse. Certo è che doveva essere qualcosa di parecchio offensivo se anche il collegio giudicante di una magistratura in larga parte rimasta di fede fascista, aveva riconosciuto a Osvaldo l’attenuante della provocazione. Pare che Bocchi avesse sibilato: “Cla vaca ed vostra medra”, quella vacca di vostra madre.

Da qui in poi ci si deve accontentare del racconto di Osvaldo che risulta agli atti del processo a cui, peraltro, nessuno crede. Osvaldo era il più vecchio e il capo partigiano che comandava tutti i protagonisti di questa storia. Si dice che lui, essendo stato a lungo il responsabile in tempo di guerra, si fosse preso la colpa con lo stesso spirito di quando combatteva la brigata nera e quelli della “Hermann Goering”. Ebbene, Osvaldo aveva detto al giudice, in una confessione somigliante a un comizio, che Bocchi, dopo tutte le schifezze commesse dai suoi camerati, li aveva insopportabilmente insultati sfidandoli. E che lui, testimone solo pochi anni prima delle torture e degli assassini subiti dai compagni, non poteva sopportarlo. Così aveva preso la tibia del cavallo che serve per annusare i prosciutti stagionati dicendo a Bocchi che avrebbe nasato quel che aveva dentro e che, stando a ciò che pareva da fuori, doveva aver solo un mucchio di merda. Osvaldo l’aveva inchiodato per una ventina di volte e alla fine, ormai cieco d’ira, l’aveva “corato” come era appena accaduto con Mussolini. Di più non gli era uscito di bocca. I giudici provarono anche a incriminarlo per autocalunnia, ma alla fine non saltò fuori nient’altro che quel suo racconto e si decisero così a condannarlo. Lui, del resto, era andato incontro al suo destino con fierezza. Alcuni dicevano con la stupidità della disciplina comunista.

Anche il caso si era messo in mezzo e aveva fatto deflagrare la lite. Quell’insulto sfuggito a mezza voce, Bocchi che quel giorno doveva essere da un’altra parte, quella combriccola di bolscevichi che non si aspettavano di avere un fascista tra i piedi e soprattutto quei due prosciutti: Mussolini e la Petacci. Le donne… In questa storia c’entravano più della politica, secondo alcune voci. Anch’esse partivano da Osvaldo, dalla sua passione per il ballo, forte come quella per la bandiera rossa e lo sten. Girava tutte le feste paesane, estate e inverno e spesso lo si vedeva su a Corniglio anche con la neve alta fino alle orecchie. Di donne ne aveva sempre, anche di giovani. Con loro era deciso, determinato come in battaglia e raramente gliene scappava una. Compresa la moglie di Bocchi di cui si diceva che avesse mordente da vendere e, come trivialmente si sussurrava in val Parma, le piacesse molto “mettere il duce a villa Torlonia”.

Osvaldo con donne così, ci andava matto e se c’era da battagliare, non si tirava indietro. Con la moglie di Bocchi pareva avesse battagliato spesso fino a un po’ di tempo prima del fatto. Anche in questo caso c’era di mezzo un maiale. O meglio, una “sana”, una maiala che non figliava più e siccome era di razza nera anche lei, l’avevano chiamata proprio Petacci.

Quella di dare ai maiali nomi di fascisti era una consuetudine nelle valli dell’Appennino dove la guerra aveva seminato più morti. Era rimasta nell’aria una minacciosa ansia di vendetta che si sfogava nel rito cruento della macellazione. Ma nel caso della Petacci la rivalsa aveva preso un’altra strada. La bestia aveva due cosce che pesavano quattordici chili l’una appena staccate e tutti dicevano che sarebbero diventate prosciutti memorabili. “Il long” e “Puleggia” le avevano salate e lasciate per due settimane sulle assi ad assorbire la concia, poi erano tornati per valutare quanto sale si era sciolto nella carne e le avevano fatte attaccare ai travetti della cucina perché asciugassero. A metà inverno erano state trasferite in camera da letto al freddo asciutto, sopra il comò con le foto di famiglia e a primavera, col sole di marzo, esposte al sole nelle ore calde al riparo dalle arie cattive della Bassa. Ogni tanto Osvaldo saliva a tastarle, le annusava, le spiccava dal chiodo e le soppesava con voluttà sensuale. Erano davvero un paio di prosciutti straordinari e la sera si addormentava nel loro profumo sognando feste paesane dove si mangiava e beveva e c’erano donne allegre. In uno di questi sogni era comparsa la moglie di Bocchi e gli era subito piaciuta tanto che al mattino s’era svegliato invaghito.

Il marito, mica l’aveva mai visto. Lui non frequentava le balere. La moglie, invece, era una indiavolata e quando gli era capitata tra le braccia in una mazurca, aveva sentito che aveva il fuoco dentro. Si erano dati appuntamento ed era nata una relazione fatta di incontri sotto il portico, dentro cantine nell’odore del mosto, contro i pilastri delle barchesse o tra i filari nella bella stagione. E intanto i prosciutti compivano l’anno della maturazione, ma Osvaldo aspettava. Era un uomo paziente. Diceva che coi salumi e le donne ci vuole pazienza per ricavare il massimo. Così erano arrivati i diciotto mesi e Mussolini già scorrazzava nel bosco di Villanuova da lattonzolo. Una sera Osvaldo aveva deciso.

“Vendo un prosciutto e metto a mano l’altro” annunciò.

Ma il bello era che l’avrebbe venduto proprio alla moglie di Bocchi. L’idea era spuntata quando lei gli aveva confidato che alle elezioni il marito metteva la croce sulla fiamma del Movimento sociale italiano.

“Sarà costretto a ingoiarsela” aveva detto Osvaldo allusivo e ambiguo.

Detto fatto, si era messo in testa di vendergli il prosciutto della maiala Petacci così avrebbe dovuto ingoiarsela davvero. Ma non la croce sulla fiamma tricolore, bensì nientemeno che la morosa del duce.

“Oltre a scopargli la moglie, gli facciamo ingoiare fetta dopo fetta la sua anima nera” aveva concluso Osvaldo una sera a un tavolo dall’Orietta.

Di faccia, questo Bocchi, non l’aveva mai visto e non gliene fregava molto di incontrarlo. Gli bastava sapere che era un fascista per provare una perfida soddisfazione. Ma poi le voci, nelle valli dove tutti si conoscono, sono incontenibili e passano sottotraccia come le vene d’acqua nella terra. Di Osvaldo e della moglie di Bocchi s’era saputo in giro e si diceva che Corniglio non fosse più un posto raccomandabile. C’era persino chi diceva che il cornuto aveva organizzato una pattuglia di vecchi camerati per vendicarsi. Osvaldo non aveva paura, non ne aveva avuta nemmeno delle SS, ma forse si era stancato di suo e quella donna non gli andava più bene. Si diceva che ne avesse per mano un’altra, giù a Langhirano, che gli aveva fatto passare la smania per la moglie di Bocchi.

Fatto sta che a Corniglio non ci era più andato, ma era venuto Bocchi da lui. Senza conoscersi prima, si erano incontrati davanti alla mole imponente di Mussolini.

E’ impossibile sapere se Bocchi si fosse aggregato ai norcini apposta rinunciando a un altro lavoro. In tanti dicono di sì, che voleva prendere le misure a chi gli aveva affibbiato il marchio d’infamia del cornuto e di quello che si era mangiato la Petacci. Certo doveva sentirsi un uomo morto quando aveva scoperto che la derisione fa più danni delle pistole. E proprio per quello voleva forse lavarsi via l’onta dimostrando il coraggio di sfidare il rivale in casa sua, in quella specie di comitato centrale riunito apposta il giorno dell’esecuzione di Mussolini. Altri ipotizzano che volesse far fuori Osvaldo davanti a tutti con un gesto clamoroso di quelli che finiscono sul giornale, che poi i camerati l’avrebbero ricordato per sempre. Ma era andata diversamente e nessuno avrebbe scommesso su quell’ipotesi. Le uniche cose certe erano la morte di Bocchi e la sentenza del processo: nient’altro.

Ragionando di chiacchiere, invece, ci sarebbe anche la storia della roba. Di quella non si era saputo subito anche perché Guarnieri si guardò bene dal raccontarla. L’aveva scoperta uno dei negozianti che giravano per le valli a commerciare bestie: Guarnieri e Bocchi erano mezzi parenti e avevano battagliato per un pezzo di terra e un bosco ad Albazzano. Vecchi contrasti deflagrati di fronte al notaio e poi in schermaglie tra avvocati. Alla fine l’aveva avuta vinta la parte di Bocchi che si era presa tutto, a detta di Guarnieri comprando il giudice. E come poteva, un magistrato di fede fascista, dare torto a un camerata iscritto al partito? Così Guarnieri si era scornato, ma gli era rimasta dentro la rabbia che lui aveva sfogato in val d’Enza e in val Termina prendendo a schioppettate le camice nere. Anche dopo il 25 aprile avrebbe voluto continuare a “pulire casa”, come diceva spesso, tanto che più volte Osvaldo l’aveva richiamato alla prudenza e alla disciplina per evitare che facesse stupidate. Chi l’ha conosciuto, infatti, giura che a tirare la coltellata al cuore di Bocchi sia stato proprio lui. Anche ai carabinieri era parso subito strano quel corpo forato in tante parti da colpi non mortali e poi finito da una coltellata decisa, inequivocabilmente tirata per uccidere. Un cambio d’arma che suggeriva l’idea di due differenti volontà, di due rabbie di diversa misura.

Osvaldo aveva preso fin dall’inizio sotto tutela quel ragazzo coraggioso ma irriflessivo e, si diceva, che anche quella volta l’avesse coperto tirandosi addosso la colpa. Lui non era vecchio, ma ne aveva già viste abbastanza. L’altro sembrava ancora nuovo al mondo, aveva due figli piccoli e forse, agli occhi di Osvaldo, doveva apparirgli lui stesso come un figlio. Quello che forse aveva voluto ma che la guerra e il tempo speso in politica gli avevano impedito di avere. Comunque, nessuno può sapere se questa storia c’entra davvero col fatto di Bocchi. Che c’entri o no, c’è e ne va tenuto conto. Come del fatto che anche fra compagni bollissero vecchie rogne per la ragione che Osvaldo, a un certo punto, aveva manifestato simpatie per Bordiga e la cosa non era andata giù alla federazione provinciale. Si diceva che fosse caduto in disgrazia, ma che rappresentasse una figura troppo importante per essere tolta di mezzo facilmente, con un semplice procedimento. D’altro canto, proprio per il suo ascendente, Osvaldo stava diventando troppo pericoloso. Insomma, c’era chi dietro il fatto di Bocchi aveva visto una macchinazione politica per tagliare fuori il vecchio comandante partigiano. La pugnalata al cuore del fascista era stata una pugnalata anche a lui perché era finito in galera, lontano dai giochi negli anni migliori e quando era uscito la partita non aveva più storia. Ecco perché si era andato a seppellire nella Bassa modenese a inscatolare mattonelle, laddove non sapevano molto di lui ed era semplicemente “al pramsan”, il parmigiano.

Che poi fosse stato proprio Guarnieri a tradirlo in quel modo, facendo trascendere una lite o avviandola di proposito sapendo che Osvaldo sarebbe stato il principale sospettato per fatti privati e anzianità politica, sembrava paradossale, ma forse per questo la gente vi attribuiva credito. Da che mondo è mondo, tutti credono più alle favole che alle verità. Specie quando i protagonisti si dileguano lasciando solo una scia di ombre. Anche Ottorino, che pur ha sentito spesso lo zio parlare del fatto di Bocchi, ha la testa confusa e non sa più distinguere nettamente i fatti dall’esorbitante invenzione che si sono tirati dietro. Dopo la ramanzina a Zurlini dall’Orietta, anche lui non ha più voluto parlare di quella storia. Assiste indifferente al racconto della vicenda e al suo trasformarsi progressivo senza più reagire, arreso di fronte all’ineluttabile. Del resto era tutto scritto fin dall’inizio. Non era una finzione, una truce rappresentazione, quel maiale nero ammazzato sull’aia di Baldo? Mussolini. Tutto era cominciato il giorno che Baldo aveva detto: “Domani ammazziamo Mussolini”.

 
Si ringrazia la regione Emilia Romagna per la gentile concessione del racconto 'Mussolini' pubblicato nella raccolta 'Il gusto del delitto' edita nel 2008 da 'Leonardo publishing'.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

bel racconto. volevo leggere solo le prime righe ma poi non sono riuscito più a fermarmi e l'ho dovuto leggere tutto.

Anonimo ha detto...

non ho firmato il commento precedente.

Enzo.

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