mercoledì 30 giugno 2010

Racconto - Statuto 1983 di Demetrio Paolin

Il racconto di oggi è di Demetrio Paolin e si intitola Statuto 1983.  La storia è costruita alla perfezione e le immagini descritte si aprono lentamente, una dopo l'altra, presentando infine una tragedia spaventosa che fa accopponare la pelle se unita al pensiero che si tratta di un racconto ispirato ad un episodio realmente accaduto.  Demetrio, da abile autore qual è, ci accompagna per mano, senza fretta, lasciandoci attraversare l'inferno di piazza Statuto e richiudendo, in silenzio, la porta dietro di sé.  Un racconto, a mio avviso, assolutamente da leggere.





immagine di Giorgio Mazzurega


Statuto 1983
di Demetrio Paolin

  A Giuseppe Genna che investiga questa icona vuota.


Il cinema è in via Cibrario, ma ora non esiste più.
C’è altro. Un palazzo nuovo, uffici, assicurazioni, gente che entra e esce. Piazza Statuto è lì proprio sul limitare, che dici cade. Lei non è cambiata in questi anni, la città intorno si è fatta migliore, più bella, ma questo quadrilatero attraversato dai fili del tram, incorniciato dai portici è rimasto medesimo.
Dicono che qui abbia la sua entrata l’inferno.
Per il passante che camminando da via Garibaldi ci sfocia dentro, tale diceria è a suo modo consolante: sapere dove rimane il luogo zitto d’ogni luce porta un sollievo ingannatore. Sai dove verrai stipato, dove sarai segregato, ma è un posto fisico, vero. Le cose concrete non ti tradiscono, sono e se sono, rumina il passante, non sono male. Non è male il bucato appeso ai balconi, i bambini a giocare nello spiazzo, l’alba viola del primo calore.
La distrazione è il beneficio. L’inferno sotto piazza Statuto è accettabile. Il male ha una sua ubicazione precisa: è davanti aperto agli occhi di tutti.

Quel pomeriggio tardi davano un film francese comico, dal titolo La capra. La gente aveva voglia di ridere, nel febbraio del millenovecentottantatre. Tratteneva la gioia come una donna l’uomo che viene dentro e lei lo tiene infine stringendosi, sapendo che poi sarà poco più di morte. Lo sa e si illude.
La gente fa la fila e prende il biglietto, paga le poche lire e entra.
C’è una leggera calca, le entrate sono strette e ognuno vuole trovare il giusto posto, il migliore quello che gli permetta di godersi il film in una posizione adatta allo svago e allo scopo.
I corpi si strusciano, si toccano gli uni e gli altri. I piedi si pestano e tutto uno “mi scusi, no si figuri”, la coatta prossimità dei corridoi del cinema si allarga nella sala: poltrone di velluto, tendaggi rossi e uno schermo grande. C’è posto per tutti in questa giornata.
E’ il 13 febbraio 1983 e al cinema Statuto inizia la proiezione del film .
I fotogrammi rimandano il viso di Gerade Depardieu, attore noto per alcuni film della nuovelle vougue e che proprio con questo suo ruolo incomincia il lento declino. Si muove sullo schermo seguendo la trama e la gente ride.

Intanto fuori la sera si declina all’inverno, s’acconcia come un soprabito sulle spalle di un uomo. Torino si copre di nero, le giornate ancora non durano il dovuto e la gente s’affretta alla casa e alle usate abitudini del pre-cena. Qualcuno si ferma nelle botteghe ancora aperte a prendere il pane per la sera e il latte per la colazione del giorno seguente. Altri s’attardano al bar per prendere un martini leggero o un bianco che apra lo stomaco alla fame, che la richiami dal profondo del corpo. Sono poggiati al bancone indifferenti alla notte, alla gente che si muove per le strade.
Questa indifferenza fisica è la sensazione più simile alla grazia che ognuno può sperare. S’invidia appena quello che altri hanno, ma con benevolenza sapendo che in realtà il lamentarsi è giusto un modo di esorcizzare il tempo e la sera che arriva.

Nel cinema intanto non si ha sentore di questo, le persone stanno ancora sulle seggiole di legno e velluto a godersi lo spettacolo. La gente seduta nella sala dello Statuto sta dimentica di sé, alcuni – forse annoiati dal film – dormono pure, si appoggiano alla poltrona e sognano. Uno di questi s'accuccia meglio e sprofonda. Nel sogno cammina in un luogo di luce tenue senza uno spazio preciso intorno a lui, poi leggermente si insinua il profumo delle mandorle, che lo stordisce, lo lascia torpido. Il profumo delle mandorle sale al naso, entra dalle narici e percorre tutto il canale, si infila nella trachea e scende verso i polmoni.
Nel sonno l'uomo sente il suo benessere dissiparsi. La laringe si ingrossa e l'aria gli viene a mancare e si sveglia di colpo, sbalzato fuori.

Questo è l'inferno.
Un cinema buio, le porte chiuse e il fumo di un incendio. L’uomo, ancora stupito del suo sognare, vede le persone agitarsi, pesci in un acquario. Le sue pupille s'arrossano, la sua pelle - è una sensazione tremenda tale lucidità - assorbe il gas presente nell'aria. Le porte d'emergenza sono sigillate. Stanno facendo di tutto per aprirle e forzale, ma è vano.
Il fuoco è ovunque. Le gente s’accalca una sull’altra e lui medesimo. La testa incomincia a dolergli, in maniera sempre più forte e fitta. Vede gente accasciarsi in preda a convulsioni, il respiro farsi affannoso. Stentano, qualcuno s'abbandona e sviene, si lascia cadere giù. L’uomo vede le mani appoggiate alle maniglie che stringono e poi lasciano la presa come fiori recisi.
La morte è, la morte domina silenziosa con un profumo sempre più acre di mandorle.
Lui è inzuppato e affoga. Se lo sente ora addosso il gas, vibrante sulla pelle come una muta che gli toglie ogni respiro. Una mano lo tiene giù, lo affoga nel gas. Sente i suoi arti perder forza, anche il suo respiro si fa rotto. Non ha più le forze, insensibili sono le mani, le dita non sentono quello che toccano. Il suo volto viene avvolto rapido da una spessa coltre di plastica, che gli ricaccia dentro il respiro. Le membra s'agitano, danno alcuni strattoni come i vestiti agitati dal vento e poi anche l'uomo sfinisce conservando in sé, come una vergogna impudica, il profumo delle mandorle.

Così l'hanno trovato i vigili del fuoco quando hanno avuto ragione delle porte, insieme a lui altre 63 persone morte per asfissia.
Guarda, ora prendono i cadaveri e li mettono fuori coperti da un telo bianco, i corpi ancora molli della prima morte. La morte è una schiera grigia. La morte li ha consumati, contratti negli spasimi, li ha soffocati. Ora sono al cospetto della infinita notte di febbraio: nessuno di loro è persona, essere umano, singolarità. Sono insieme massa grigia, sono medesimi, finiranno medesimi.
Sono una morte comune.
Se potessero parlare la loro nenia sarebbe dolciastra. Hanno sentito le mandorle, il loro profumo possederli. Sono morti avendo questo sentore. Si sono spenti uno accanto all'altro uno sopra l'altro, un gomitolo di braccia, gambe, brogliaccio di capelli e di schiene che non può essere districata.
Sono 31 uomini. 31 donne. Un bambino. Una bambina.
Simmetria perfetta: a vederli stesi fuori il cinema paiono uno sterminato sudario a coprire l’intera città di Torino. Coloro che sono vivi, gli occhi rossi la gola gonfia, sono assistiti da infermieri e vigili del fuoco, hanno una coperta sopra le spalle e bevono un po’ d’acqua.
Guardano il relitto del cinema bruciato e i morti.
Nessuno sa come è successo. Nessuno si capacita di come un cinema sia andato in fiamme, nessuno sa perché le porte erano sigillate. Ci saranno le inchieste, ci faranno cippi di commemorazione. La domanda che rimarrà inevasa, che ora aleggia dai morti stesi sul lastrico del marciapiede e dai vivi seduti sulla strada circostante, la domanda che sale da entrambi con voce sincrona è: perché tutto questo?
E la soglia del cinema, combusta come le ossa di un morto, risponde parole che nessuno comprende.

Hier ist kein Warum 

Demetrio Paolin classe 1974 vive e lavora a Torino. Ha scritto alcuni libri, l'ultimo si intitola "Il mio nome è legione" (Transeuropa)

martedì 29 giugno 2010

Le cose fondamentali (Einaudi) - Tiziano Scarpa

Tiziano Scarpa - Le cose Fondamentali (Einaudi, 2010)

L'amore, il potere, i soldi, la malattia, la morte. Le cose fondamentali da trasmettere a un bambino, gli strumenti indispensabili per renderlo capace di affrontare la vita, di vederla per quello che è, senza protezioni artificiali, senza illusioni o comode bugie. Il racconto potente e sincero di un padre che osserva con stupore una creatura nuova, dai grandi occhi spalancati, un piccolo alieno che ha davanti a sé infinite possibilità e tutto il tempo del mondo.
Diventare padre, trovare il proprio posto tra un bimbo e la presenza costante e assoluta della mamma, offrendo un latte diverso, che potrà essere apprezzato a distanza di anni, «il latte nero» della scrittura: Leonardo compra un quaderno e inizia a riempirlo con tutto ciò che ha compreso e imparato prima della nascita di Mario, il bambino che ha sconvolto il suo modo di sentire le cose. Mario dovrà leggere il quaderno a quattordici anni, la stessa età che aveva Leonardo quando iniziò a rendersi conto che qualcosa non quadrava, che la realtà era più torbida di come gli era stato insegnato a percepirla: «gli adulti mi tenevano nascosta la verità sulle cose importanti. Mi sono messo a scriverti per non rifare lo stesso sbaglio. Gli adulti pensavano che il mondo sarebbe crollato, se loro fossero stati sinceri fino in fondo. Io lo guardavo, il mondo intorno a me, e non mi piaceva. Vedevo che non piaceva nemmeno agli adulti. Allora proprio non capivo perchè mai lo difendessero».
Farsi strada tra «un'ondata di mamma» e l'altra, camminare nel binario tracciato dalle ruote della carrozzina sulla spiaggia, ma soprattutto guardare al futuro, con speranza e con il timore costante dell'inadeguatezza, pensare a come sarà Mario, una volta in grado di esprimersi con le proprie parole e di seguire il proprio pensiero.
Tiziano Scarpa, vincitore del Premio Strega 2009 con Stabat mater, torna nei Supercoralli con Le cose fondamentali, la storia di un padre che affronta il mistero più grande, che cerca di riordinare le proprie esperienze per consegnarle, come una mappa o uno scudo, al bambino appena nato che ha di fronte, in attesa di una inaspettata e sconvolgente verità, che metterà in pericolo l'intera costruzione: una scrittura limpida e profondissima, per un romanzo sulla forza della vita allo stato puro.
***
In occasione dell'uscita di Le cose fondamentali, Tiziano Scarpa parla del nuovo romanzo in un'intervista esclusiva, toccando numerosi temi, dalle scelte narrative al rapporto tra letteratura e tecnologia.
Il narratore di Le cose fondamentali, impegnato a trasmettere a un futuro figlio quattordicenne la sua esperienza di vita, si chiama Leonardo Scarpa. L'amico, che padre non è e che si rifugia nell'ironia per insegnare a sua volta qualcosa a Leonardo, si chiama Tiziano. Con questo gioco sui nomi vuoi instillare nei lettori il dubbio su cosa Tiziano Scarpa pensa davvero sulla paternità e sulle cose fondamentali della vita?
Tiziano Scarpa: Questa storia è raccontata con una forte immedesimazione. Sono sprofondato dentro il protagonista, nelle sue emozioni e nelle sue esperienze intensissime. Un tale coinvolgimento poteva indurre a pensare che anche le sue idee sulla vita e sulla paternità fossero le stesse che ho io. Invece è come se avessi spezzato in due il mio nome e cognome, distribuendolo ai personaggi principali, per significare che in ciascuno di loro c'è, sì, una parte di me, ma non una coincidenza totale.
L'amore materno nel tuo romanzo è senza condizioni e proprio per questo incompleto e potenzialmente soffocante nella sua meccanicità. Per essere padri bisogna inventarsi giorno dopo giorno. Pensi che ci voglia fantasia per essere padri?
Credo che ci sia bisogno di un supplemento di decisione, un restare incinti nell'animo. Alla fine, ogni padre è un padre adottivo.
Nel libro, da un certo punto in avanti, la narrazione passa senza soluzione di continuità dalla prima alla terza persona per poi ritornarci. Come mai?
Per proteggersi da un trauma troppo forte ci si oggettivizza. E poi, in alcune parti del romanzo questa oscillazione fra prima e terza persona è anche un modo per non coincidere con il proprio ruolo. È un po' come quando si cambia verbo per l'identità e la professione, dicendo «sono» milanese, napoletano ecc. ma «faccio» il barista, l'insegnante ecc.
Come altre volte nei tuoi scritti, le parole prendono la parola in prima persona a un certo punto di Le cose fondamentali, tanto che viene spontaneo chiedersi, e quindi chiederti, come vedi il tuo rapporto con esse. Possiedi le parole o ne sei posseduto?
È la prima volta che lo faccio in maniera così radicale in un libro. Ma non posso risponderti a fondo, in poche righe, sulla mia esperienza linguistica di possessione e controllo. E poi, chi può dire chi ti risponderebbe? Io o le parole stesse? Limitandomi a questo romanzo: il protagonista scopre l'inoltrepassabilità delle parole. Credeva di gettare un ponte comunicativo fra sé e suo figlio, e invece a metà del ponte sbatte contro una specie di muro di parole, rappresentato anche tipograficamente da alcune pagine tutte stipate di frasi. Un ostacolo, e anche uno specchio: le parole gli dicono quello che lui non avrebbe mai il coraggio di ammettere. È come se gli si rivoltassero contro e gli rivelassero che cosa sta facendo veramente. È uno dei punti più intensi del libro. Vorrei che fosse un'esperienza forte anche per chi lo legge.
Accanto alla paternità un altro tema appare spesso nelle pagine del tuo romanzo, il rapporto tra letteratura e tecnologia. Hai paura, come il tuo protagonista, che le parole degli scrittori zoppichino su e giù per un megavideogioco, ignorate da tutti?
Questo tema mi interessa da un punto di vista politico. La letteratura, insieme all'arte visiva - che però attualmente è troppo assoggettata al sistema dei curatori, dei galleristi ecc. - è forse l'unico mezzo a disposizione dell'individuo per diffondere la sua voce indipendente e irriducibile. Le altre opere, d'arte o di intrattenimento (cinema, tivù, musica pop, videogiochi ecc.) sono prodotti collettivi, spesso compromissori, e possono contare su un dispiegamento di apparati tecnologici incomparabilmente più sofisticati. Ma la tecnologia aggiunge, mentre la parola letteraria sottrae: non ha l'immagine. La tecnologia è un'addizione di effetti, illusioni, bonus, plus: immagine, suono, movimento, interazione, tridimensionalità… Deve offrire funzioni sempre più complesse, ricche, multiformi. Difficilmente potrà sostituire la parola letteraria, proprio perché quest'ultima non mira al superamento tecnologico, anzi, si è ante-retrocessa, lasciandosi superare in partenza, è rimasta deliberatamente indietro. Pensa al paradosso degli ebook: utilizzeremo nuovissimi aggeggi sempre più versatili per compiere un'attività monocorde e arcaica, vecchia di migliaia di anni: leggere, decifrare segni grafici statici. Certo, con gli ebook sarà possibile portarsi in tasca l'equivalente di intere biblioteche, ma l'azione del leggere parole, in sé, resta molto più antiquata di sfogliare un catalogo fotografico o guardare un programma televisivo. La lussureggiante miseria della parola si fonda proprio sulla mancanza dell'immagine, cioè su quell'attività primaria che è l'immaginazione. Immagini perché ti manca l'immagine; perché vuoi che ti manchi. Mettersi a leggere è desiderare di sentire la mancanza di un'immagine. La lettura di un romanzo è immaginazione sotto dettatura. Leonardo, il padre di Le cose fondamentali, consegna a suo figlio Mario anche questo, la facoltà di immaginare.

Per scrittori e scrittrici segnalo il blog di "Scrittori in causa"

Scrittori in causa
Mi unisco a coloro che stanno segnalando questa iniziativa. Mi pare un'idea interessante dedicata a scrittori e scrittrici, da seguire con attenzione.



"Scrittori in causa è un organismo indipendente di informazione e confronto per scrittori e scrittrici stanchi di quelle convenzioni contrattuali vantaggiose solo per l'editore, accettate acriticamente da tutto l'ambiente editoriale".

lunedì 28 giugno 2010

Intervista a Tiziano Scarpa: "Spero sempre nell'inaudito che sbaragli i giochi, le professioni, le aspettative"

Oggi propongo una piccola discussione con uno degli autori italiani più apprazzati: Tiziano Scarpa. Tra un impegno e l'altro è riuscito a trovare un po' di tempo da dedicare a blogolonelbuio e questo non può che farmi piacere.

Tiziano Scarpa ha scritto i romanzi Occhi sulla graticola, Kamikaze d’Occidente, Stabat Mater e Le cose fondamentali; le raccolte di racconti Amore, Cosa voglio da te e Amami; gli interventi civili Cos’è questo fracasso? e Batticuore fuorilegge; i libri di aforismi Corpo e La vita, non il mondo; il poema Groppi d’amore nella scuraglia e la raccolta di poesie Discorso di una guida turistica di fronte al tramonto. È coautore insieme ad Aldo Nove e Raul Montanari delle cover poetiche Nelle galassie oggi come oggi. Ha scritto numerose pièce teatrali, fra cui Comuni mortali, La custode, Gli straccioni, Il professor Manganelli e l'ingegner Gadda, L'ultima casa, L'inseguitore. È autore dei radiodrammi Pop Corn, La visita e La musica nascosta. Ha pubblicato la guida Venezia è un pesce. Svolge un'intensa attività di lettore scenico delle opere sue e altrui, a teatro e non solo. Con il suo romanzo Stabat Mater ha vinto il Premio Strega 2009[1] e il Premio SuperMondello 2009. I suoi libri sono tradotti in numerose lingue, cinese compreso. Collabora alla rivista-sito Il primo amore (pubblicata anche su carta dalle edizioni Effigie) di cui è uno dei fondatori, dopo esserlo stato del blog collettivo Nazione indiana.
Per prima cosa vorrei parlare di come sono andate le cose nel lontano (ma non troppo) 1996, quando hai convinto l'editore Einaudi a pubblicare il tuo romanzo d'esordio Occhi sulla graticola . Pensi che oggi un autore in cerca di spazi possa proporsi nello stesso modo?

A me è andata così: Mauro Bersani, che attualmente dirige alcune collane nella casa editrice Einaudi, lesse i miei racconti nel 1989. Allora non lavorava ancora per nessuna casa editrice. Poi continuò a seguire quello che scrivevo, finché, alla fine del 1994, gli mandai il mio primo romanzo. Nel frattempo, Bersani era stato assunto come redattore all'Einaudi. Propose il mio romanzo per la pubblicazione. Firmai il contratto all'inizio del 1995; ci volle un anno per la pubblicazione vera e propria: Occhi sulla graticola uscì nel febbraio del 1996. Nel mio caso, insomma, ho trovato una persona generosa, interessata a leggere i miei inediti. Di generosità se ne trova ancora in giro, ma come vedi io ho avuto un colpo di fortuna molto particolare: avere come lettore dei miei inediti qualcuno che poi è entrato in una casa editrice importante. Non potendo contare sulla fortuna, consiglio altre vie di proporsi (vedi l'ultima risposta di questa intervista).

Che idea ti sei fatto delle nuove generazioni di scrittori? Quanta qualità c'è nei testi che sicuramente ti sarà capitato di leggere qua e là? Pregi e difetti.

Non ha senso parlare in generale. Di recente ho letto due esordienti molto intensi, Simona Castiglione (La mente e le rose) e Andrea Tarabbia (La calligrafia come arte della guerra), pubblicati entrambi da Transeuropa, e altri un po' più deboli. Diciamo che sono spontaneamente portato a simpatizzare con chi non ricalca formati romanzeschi risaputi ma si apre la propria strada fra i rovi e non ha paura di inoltrarsi dove non va nessuno.

Ultimamente si parla di un ritorno in auge della figura dello scrittore esordiente che fino a poco tempo fa era stata accantonata nel dimenticatoio. Molti sostengono che dall'assegnazione del premio Strega a Paolo Giordano in poi si sia innescato un fenomeno di vendita che spinge molti editori a pubblicare nuovi autori al di là della qualità del testo. Tu che per la vittoria dello Strega 2009 (con il romanzo Stabat Mater - Einaudi) hai fatto una gavetta vera, cosa ne pensi? E' un timore reale? Se sì, credi si tratti di un meccanismo di cui preoccuparsi o fa parte dei ricorsi storici?

Non mi pare che gli esordienti fossero stati accantonati nel dimenticatoio. Prima di Paolo Giordano, negli anni Duemila hanno esordito Davide Longo, Letizia Muratori, Melissa P., Alessandro Piperno, Pulsatilla, Roberto Saviano e altri autori assai letti. Io ho avuto un ragguardevole riscontro di critica e visibilità con il mio primo romanzo, ma ringrazio il cielo di non aver avuto un grande successo di vendite con quel libro. Immagino che mi avrebbe creato ansie nello scrivere i libri successivi, e forse avrebbe interferito con le mie fantasie artistiche e le mie forze creatrici. Autori e autrici veri possono venire schiacciati dalla macchina editoriale del "successo al primo colpo".

Hai un'agenzia che ti rappresenta? Credi sia importante per un autore averne una? Se ce l'hai quali sono i vantaggi e gli svantaggi?

Da cinque anni sono rappresentato dall'Ali, Agenzia Letteraria Internazionale. Si occupa di trattative che per l'autore sarebbe sgradevole condurre e di altre cose un po' noiose, che mi porterebbero via tempo, e verifica la correttezza del comportamento degli editori. In più, dà preziosi consigli sulle scelte editoriali che può fare un autore, avendo un'esperienza senza pari e la conoscenza perfetta del paesaggio reale. Nessuno svantaggio. Prima facevo tutto da solo. Avrei fatto meglio a trovarmi un agente fin da subito.

Te la senti di dare un consiglio pratico a un autore che inizia ora a cimentarsi con la scrittura e a un bravo autore che è invece in cerca della sua prima pubblicazione?

Il consiglio pratico è quello di riscrivere da cima a fondo un libro che si considera finito: non limitandosi a correggere qua e là qualche parola sullo schermo, ma proprio ricopiandolo, ridigitandolo per intero, come se invece di un computer si disponesse di una vecchia macchina da scrivere. Serve a rimettere in discussione ogni frase, rassodando il superfluo, tagliando, ma soprattutto dà risultati inaspettati: ricopiando succede che si sviluppano pagine che, prima, sembravano compiute, si trovano spunti, semi, bulbi e boccioli che se ne stavano nascosti fra le righe nonostante le riletture e che, durante la ribattitura del romanzo, sbocciano e danno frutto.
Un altro consiglio (non richiesto) è: domandati che scrittore/scrittrice sei. Un romanziere? Un poeta? Un drammaturgo? Un saggista? Un autore/autrice di aforismi? Non scrivere romanzi, sempre e unicamente romanzi, soltanto perché te lo chiede quest'epoca romanzofaga. Non snaturare una poesia, un racconto, una commedia teatrale, un saggio, facendoli diventare forzosamente un romanzo.
Ai bravi autori in cerca della loro prima pubblicazione suggerisco di partecipare al premio Calvino, e di trovarsi un buon agente letterario che proponga i loro libri agli editori.
Il premio Calvino è serio, non si lascia sfuggire gli inediti di valore. Dopo aver partecipato anch'io alla giuria in un'edizione di una decina di anni fa, e avere constatato di persona la serietà con cui è organizzato, negli anni successivi mi è capitato di suggerire a tre persone, avendo letto i loro inediti, di partecipare al Calvino, in tre edizioni diverse: ebbene, una l'ha vinto, l'altra ha ricevuto una segnalazione speciale della giuria, la terza è arrivata fra i finalisti. E, naturalmente, nessuno nella giuria del premio sapeva che avevo suggerito a queste persone di partecipare (anche perché sarebbe stato impossibile, essendo la partecipazione anonima; il nome dell'autore/autrice viene scoperto dalla giuria solo dopo aver emesso il verdetto).
Quanto agli agenti, mi sembra che oggi gli editori ascoltino quasi esclusivamente i loro consigli, la filiera editoriale si è professionalizzata. Negli anni passati ho letto un'enorme quantità di inediti, suggerendone alcuni agli editori, ma con scarsissimo successo. Da un po' di tempo ho smesso, perché, visti i risultati deludenti, ho constatato che non ne vale la pena, oltre a essere un lavoro che richiede tantissimo tempo, e io non ne ho più. Gli editori si insospettiscono, quando un autore/autrice gli consiglia di pubblicare un libro di un esordiente, pensano che lo faccia perché si tratta di amici suoi, e non perché crede spassionatamente nel valore di quell'inedito. Ti ripeto: gli editori si fidano molto di più degli agenti letterari, perché gli agenti non sono disinteressati, ci possono ricavare qualcosa dai diritti d'autore (di solito il dieci per cento), e dunque se propongono un libro all'editore significa che si aspettano che quel libro abbia delle possibilità di trovare i suoi lettori; e poi si suppone che gli agenti, i quali conoscono bene il mercato e hanno contatti con l'intero panorama editoriale, abbiano fatto a ragion veduta la scelta dell'editore, ritenendo che quello sia il più adatto per quel tipo di libro. Infine, l'agente si gioca anche la sua reputazione professionale, non può proporre un libro all'editore solo perché l'autore è un amico o per altri motivi extraeditoriali.
Io comunque spero sempre nell'inaudito che sbaragli i giochi, le professioni, le aspettative, i paesaggi, le istituzioni, i percorsi obbligati, le procedure, le trafile. Viva la scrittura!

venerdì 25 giugno 2010

I fiori di Honk Kong (Fanucci) - di Paola Rondini

Paola Rondini è un'interessante autrice thriller che consiglio senz'altro (a chi ancora non la conosce) di scoprire. I fiori di Hong Kong è il suo secondo romanzo (edito da Fanucci) e devo di che si tratta di un lavoro che mi ha colpito non poco. Di seguito, come al solito, inserisco la trama:

 


L’architetto Vittorio Sarli viene chiamato dal consolato italiano di Hong Kong per riconoscere la salma del fratello Giorgio, rimasto ucciso insieme a una prostituta durante quello che, secondo la polizia locale, è stato un regolamento di conti legato all’attività della donna. Mentre ricostruisce le ultime fasi della vita di suo fratello, Vittorio conosce Julia, affascinante direttrice di una rivista impegnata sul fronte dell’ecologia e affidataria di Lin-May, una giovanissima ragazza dal passato difficile, che vive con lei e a volte realizza servizi fotografici per la sua rivista. Poco alla volta Vittorio porterà alla luce verità sempre più inquietanti sulla personalità di Giorgio, aiutato da Leung, commissario metodico e appassionato indagatore della verità, al quale sono affidate anche le indagini sull’efferata uccisione di Lin-May mentre era impegnata in un servizio nell’entroterra cinese. In un susseguirsi di colpi di scena e rivelazioni sconcertanti, i delitti si svelano come parte di un disegno che affonda le sue radici nella mafia russa e nella malavita internazionale, in cui gli interessi in gioco si riveleranno temibili e pericolosi per l’umanità intera.

giovedì 24 giugno 2010

Daniele Luttazzi: non è plagio ma un'esigenza legale

In questo articolo apparso sul blog di Daniele Luttazzi (già nel 2005) c'è a mio avviso un chiarimento netto che chiude l'annosa faccenda riguardante l'accusa di plagio che ha visto Daniele, di recente, protagonista. Certo, sull'eccessiva tutela del diritto d'autore di cui (tra le altre cose) si parla, ci sarebbe molto da discutere e personalmente non condivido la sua posizione eccessivamente conservatrice, ma non c'è dubbio che questa sia un'altra questione (di cui magari parlerò più in là).

 

 

Caccia al tesoro

Da anni, Luttazzi organizza una "caccia al tesoro": dissemina qua e là indizi e citazioni di comici famosi, e i fan devono scoprirli. Questo escamotage nacque come esigenza legale dopo il processo Tamaro: il pretesto delle querele miliardarie, infatti, è che quella di Luttazzi non è satira, ma volgarità e insulto.
Facevano così anche contro Lenny Bruce e Lenny Bruce, per difendersi, cominciò a inserire nei suoi monologhi brani di autori satirici famosi. Vinse così alcuni processi dimostrando che il brano tanto volgare di cui lo accusavano, in realtà era di Aristofane!
Luttazzi ha ripreso lo "stratagemma Bruce": non solo vince le cause miliardarie che gli intentano, ma può togliersi lo sfizio di dare dell'ignorante a chi lo attacca sui giornali sostenendo che la sua non è satira e non fa ridere. Quando i soloni fanno un esempio, quasi sempre il brano che non li fa ridere -sorpresa!- è ripreso da un comico famosissimo: Bruce, Carlin, Hicks. ( Famosissimo per tutti, tranne che per loro! )
Il campo di Luttazzi è minato. Occorre competenza per attraversarlo indenni.
La cosa col tempo è diventata una strizzatina d'occhio ai fan: la caccia al tesoro. Scoprire le mine. Una complicità fra appassionati di comicità, come nel jazz quando Fred Hersch inserisce in una improvvisazione una frase di Monk: chi se ne accorge entra a far parte di un circolo di eletti.
Il premio simbolico è un libro di Luttazzi o un suo cd con autografo commemorativo dell'occasione fausta.
Altre mine restano ancora nascoste. Quindi, buona caccia!

mercoledì 23 giugno 2010

Max pubblica una foto di Saviano morto!

Ora si sta davvero esagerando! Tutta la mia solidarietà a Roberto.

(ANSA) - ROMA, 23 GIU - 'E' di cattivo gusto': cosi' Roberto Saviano sul fotomontaggio di Max in cui si vede il suo cadavere in obitorio ripreso di scorcio. L'immagine e' accompagnata dalla scritta 'hanno ammazzato Saviano' e riprende il Cristo di Mantegna e la foto di Che Guevara morto.'Una foto - dice Saviano - utilizzata per speculare cinicamente sulla condizione di chi vive protetto. Questa pressione sulla mia morte lascia sgomento me e la mia famiglia.Ma rassicuro tutti:non ho alcuna intenzione di morire'.

ansa 23 giugno 2010

Domenico Procacci: Troppi editori conformisti e premi poco trasparenti

Ripropongo di seguito una interessante intervista a Domenico Procacci (produttore cinematografico e fondatore di Fandango) uscita qualche giorno fa su La Repubblica - R2 Cultura. L'intervista è a cura di Antonio Gnoli. Un attacco duro a un mondo, quello editoriale, incapace di rinnovarsi.




La sfida di Procacci: "Troppi editori conformisti e premi poco trasparenti"

 di Antonio Gnoli

L'orecchino al lobo sinistro, gli stivaletti un po' consumati, l'aria di quello "che ci faccio io qui", un po' sorniona e un po' trasgressiva, così si presenta Domenico Procacci, patron della Fandango, un'impresa multipla che annovera ovviamente la produzione cinematografica, la casa editrice, una radio e un settore di produzione musicale. La sede è a Roma, in una palazzina a più piani dove si respira un'aria democratica, rilassata, in qualche modo controcorrente rispetto alle formalità che in genere avvolgono la sede di un'azienda.
La Fandango libri compie dieci anni. E nel tempo è diventata una bella realtà: all'inizio pochi libri, oggi una cinquantina di titoli l'anno, circa tre milioni di fatturato, cui va sommato un altro milione se si considera la recente acquisizione della Coconino, una casa editrice specializzata in fumetti, peraltro bellissimi. Dieci anni che verranno in qualche modo festeggiati con l'uscita in ottobre del nuovo romanzo di Sandro Veronesi. Titolo un po' misterioso: XY, per un romanzo a metà strada tra il thriller e il racconto filosofico. A cinque anni da Caos Calmo che vinse lo strega, la curiosità e le aspettative sono alte.

Tiratura iniziale tra le 150 e le 200 mila copie. 
 «L'investimento che abbiamo prodotto è adeguato all'evento letterario e mi piace che coincida con il decennale della casa editrice».

Intende dire che lo sforzo sarà analogo a quello che produceste per Questa storia di Baricco?
«Legato all'importanza che rivestono certi scrittori che hanno creduto nel nostro progetto. E, tra l'altro, il romanzo di Baricco andò benissimo».

C'è chi ha sostenuto che è andato meno bene dei libri che Baricco pubblicò con Rizzoli.
«E' un'affermazione infondata. Il libro ha venduto oltre duecentomila copie, è stato primo in classifica per quattro settimane. Direi pienamente in linea con i suoi precedenti lavori. Baricco del resto ha un pubblico che lo segue a prescindere dalla casa editrice con cui pubblica».

Però il gruppo Rizzoli non digerì quella specie di scippo. Di beffa contro natura: il piccolo che mangia il grande. Non si era mai visto che autori affermati come Baricco, Veronesi e lo stesso Nesi lasciassero la casa madre per andare altrove.
«A parte che Nesi continua a pubblicare per Bompiani, dov'è lo scandalo? Il momento importante per noi coincise con l'arrivo di Rosaria Carpinelli che era l'editor della Rizzoli. Con lei abbiamo rifondato la casa editrice».

Rifondata cosa vuol dire?
«Quando la Fandango libri è nata si pensava di fare pochissimi titoli e soprattutto di autori non italiani. Ci piaceva poter dare al pubblico Infinite Jest di Foster Wallace o pubblicare i romanzi di John Cheever. Ma era una politica del fiore all'occhiello, dell'hobby nato dalla testa di un produttore cinematografico. Poi siamo cresciuti e siamo stati in grado di affrontare non solo la narrativa straniera ma anche quella italiana, la saggistica, il fumetto».

Come ha convinto scrittori affermati a venire alla Fandango?
«Se non pensassi che su certi libri posso fare lo stesso lavoro dei grandi editori non avrei proposto prima a Baricco e poi a Veronesi di pubblicare con noi. La vera differenza si sente soprattutto con gli autori meno noti, qui facciamo più fatica di un grande editore a imporli all'attenzione dei lettori».

Avete sempre il vantaggio del cinema. Un bel romanzo può diventare un film e viceversa.
«Non è così semplice, anche se i punti di contatto ci sono. Nel senso che in entrambi i casi si tratta sempre di raccontare storie. Cambia naturalmente il mezzo, il linguaggio e gli investimenti sono diversi: se sbagli un libro poco male, se toppi un film la cosa è certamente più grave».

Due forme d'ansia diverse?
«Per natura non sono ansioso. Diciamo che il gioco che porto avanti nel cinema è lo stesso che pratico con i libri: andare dietro al proprio gusto, pubblicare ciò che ci piace e capire se è un discorso limitato a me e alle persone che mi circondano, oppure intercetta anche il gusto del pubblico e quindi diventa qualcosa di più emozionante».

E cosa ne ha concluso?
«Non penso che la qualità sia necessariamente per pochi. Ecco, se un'ansia mi viene è quella di sapere se un libro o un film piacerà solo a noi o anche agli altri».

Lei interviene sui libri con la stessa determinazione che ha con i film?
«Per la parte letteraria so di essere molto meno competente».

Ma di fronte a un romanzo che non le piace e che i suoi collaboratori caldeggiano, lei che fa?
«Non è mai accaduto che un libro portato da quelli che lavorano con me non mi sia piaciuto. C'è del resto un rapporto di fiducia e di stima senza il quale non costruisci niente».

Ha il tempo di leggere tutto quello che passa dalla casa editrice?
«Come potrei? Cerco naturalmente di informarmi il più possibile, ma ormai non ce la faccio più. La Fandango è cresciuta nei titoli e negli impegni».

Quanto tempo le dedica?
«Diciamo un trenta per cento, il resto va alla Fandango cinema».

Come vive la crisi del libro e del cinema?
«Se il raffronto lo si fa con altri settori la situazione non è così compromessa. Per quanto ci riguarda non abbiamo subito particolari contraccolpi. Registriamo una crescita anche se lenta, sia col cinema che con i libri. In ogni caso il cinema si muove a una velocità maggiore dell'editoria».

Intende dire che i libri spostano poco?
«Non solo questo. Diciamo che nel mondo dell'editoria c'è una generale accettazione di quello che si è. C'è molto conformismo e quieto vivere. Ogni tanto scoppia qualche petardo, ogni tanto qualcuno attacca un premio o un editore concorrente, ma alla fine tutto resta com'è. L'editoria somiglia a un fossile e questo mi preoccupa».

E non la preoccupa che il maggior premio letterario, ossia lo Strega, siano sempre gli stessi editori a vincerlo?
«Sono l'ultimo arrivato e mi muovo con difficoltà nel mondo dei premi letterari. Noi abbiamo il libro di Lorenzo Pavolini Accanto alla tigre che concorre allo Strega. Come produttore di film ho preso posizione sul premio Davide di Donatello, chiedendo che fosse cambiata la giuria, perché da quando è stata molto allargata ha perso di qualità. Poi un giorno mi hanno raccontato come funzionava lo Strega, sono rimasto a bocca aperta. Tutto quello che nel mondo dei premi cinematografici mi sembrava non avesse sufficiente limpidezza, improvvisamente mi è parso trasparente rispetto ai maggiori premi letterari e in particolare allo Strega».

Eppure vi partecipa.
«Non voglio fare del moralismo, né gridare allo scandalo. Ho imparato che lo Strega funziona per blocchi di potere, che le grandi case editrici controllano molti voti. Vincere quel premio significa incidere sui numeri del venduto, significa a volte costruire una carriere letteraria, significa rafforzare un editore. Dovrebbero esserci regole condivise da tutti. Ma se non riesco a cambiare le cose nel mondo del cinema, dove ho un ruolo molto più forte, come posso pensare di incidere sulle regole dello Strega con una semplice polemica? Il premio riflette l'immagine della realtà editoriale italiana, che è sostanzialmente immobile. C'è un'accettazione passiva delle cose. Lo scenario va cambiato, ma non basta fare casino, occorre creare condizioni diverse».

Un gioco con Nicoletta Vallorani

Mi va di segnalare un bel giochino che la scrittrice Nicoletta Vallorani sta portando avanti sul suo blog. Leggendo poche righe di testo indovinare lo scrittore e il libro. E' un buon modo per mettersi alla prova, e poi è divertente!

per giocare premi qui

lunedì 21 giugno 2010

Non ti voglio vicino (Frassinelli) - Barbara Garlaschelli

Questo libro di Barbara Garlaschelli è stato candidato al premio Strega 2010 e io non nego che mi sarebbe piaciuto vederlo anche nella cinquina finale. 

Lena è giovane, bellissima e intelligente e accanto ha un marito che farebbe qualunque cosa pur di renderla felice. Ma lei non sa più dare né ricevere amore fin da quando - aveva nove anni - qualcuno le ha rubato l'innocenza, segnandola per sempre. Un segreto nascosto con cura, sepolto nell'anima, un fantasma di cui però non riesce a liberarsi e che a poco a poco sgretola il suo equilibrio. L'affetto e la dedizione di Lorenzo non bastano, e nemmeno la nascita di Prisca scalfisce la scorza di questa donna gelida, nemica, distante. C'era la guerra all'epoca in cui Lena aveva vissuto sulla propria pelle la follia degli adulti; da allora è trascorso molto tempo, eppure lei continua a combattere un'infinita battaglia dentro se stessa, contro i demoni che l'assediano. La sua bambina la teme e la respinge fino al punto di odiarla, di non volerla vicino, e la tragica scomparsa di Lorenzo accelera il distacco della figlia dalla madre. Un rapporto distruttivo, logorante, che lentamente intacca anche la psiche di Prisca, inducendola a difendersi con una straziante, terribile forma di rifiuto... Ambientata fra il 1939 e i giorni nostri, una storia di infanzia tradita, di sentimenti calpestati, di amori molesti, cui la scrittura limpida e affilata di Barbara Garlaschelli imprime un pathos e una drammaticità crescenti, che catturano il lettore sino al liberatorio finale.

Intervista a Valentina Balzarotti (Agenzia Letteraria Internazionale): "C'è un grande cambiamento in atto dovuto alla rivoluzione dei mezzi di comunicazione"

Oggi ho il piacere di parlare con Valentina Balzarotti,  una delle agenti della A.L.I. (Agenzia Letteraria Internazionale), agenzia fondata da Augusto Foà e che, detto per inciso, considero per storia e per catalogo la più prestigiosa del Paese. Chi avesse dubbi in proposito può dare un'occhiata alla biografia di uno dei suoi agenti più influenti, Erich Linder , da molti considerato un mito (deceduto nel 1983 gestì i diritti di autori come Franz Kafka, Thomas Mann e altri ancora).
Attiva da oltre un secolo, tra gli autori rappresentati compaiono nomi come Indro Montanelli, Alda Merini, Ezra Puond o ancora i più recenti Tiziano Scarpa, Antonio Moresco, Barbara Garlaschelli, e molti altri



Ciao Valentina e grazie della disponibilità. Inizio subito chiedendoti in che modo lavorate? Come funziona la vostra organizzazione interna e che tipo di servizi offrite?

Ci sono vari settori in agenzia.

1.      agenti che si occupano solo di autori italiani:  i  diritti delle loro opere vengono venduti in Italia e nel mondo, per libri, e book, audio books, e diritti cinema e tv tratti dalle loro opere.

2.      agenti che si occupano di agenti, scrittori singoli e case editrici straniere che rappresentiamo in esclusiva in Italia :  i diritti vengono venduti per libri, e book, audio books,  eccetera ma solo in Italia.

Che tipo di professionalità avete all'interno dell'agenzia? In quanti siete?

Siamo otto in tutto, più qualche collaboratore esterno. Agenti veri e propri siamo in cinque: due agenti dedicati esclusivamente agli scrittori italiani, un agente solo per la vendita dei diritti all’estero, due agenti per la rappresentanza dall’estero in Italia.

Chi sono i vostri clienti?
 
Li potete trovare tutti sul sito: ci sono i nomi degli scrittori italiani, che rappresentiamo in esclusiva in tutto il mondo  e i nomi degli agenti, case editrici e singoli scrittori stranieri che rappresentiamo in esclusiva in Italia.

In che modo selezionate gli scrittori da rappresentare? Molti sostengono che bisogna essere già piuttosto affermati per entrare nelle grazie di un'agenzia valida come la vostra, che bisogna dimostrare di essere appetibili per il mercato, corrisponde al vero questo? E' il mercato editoriale a dettare le regole del gioco?

Bisogna distinguere sempre seguendo i due settori principali di prima:

1.      Scrittori italiani: oltre agli scrittori affermati, noi cerchiamo talenti nuovi (in particolare questo è un compito affidato a me). Un filtro all’ingresso è rappresentato dal servizio di valutazione delle opere (servizio a pagamento, vedere la sezione apposita sul sito); l’altro sistema con cui io seleziono gli scrittori che vorrei rappresentare è con un costante monitoraggio di quello che esce in libreria, dei premi letterari minori, dei premi opere prime, e delle scuole di scrittura, blog, siti internet eccetera. Inoltre sono molto spesso i nostri rappresentati a indirizzare a noi i loro colleghi scrittori. Noi siamo la dimostrazione che non bisogna affatto essere affermati per essere rappresentati da noi. Tuttavia è vero che poi spesso, anche se noi siamo convintissimi della validità dell’opera di uno scrittore non affermato,  facciamo una gran fatica a trovargli un editore (e a volte, raramente, per fortuna, non lo troviamo affatto)

2.      Le rappresentanze dall’estero verso l’Italia invece avvengono per contatti personali alle numerose fiere a cui siamo presenti e attraverso contatti sempre personali costruiti negli anni (anzi nei decenni, visto che l’Agenzia supera i 100 anni di età!) Esaminiamo i cataloghi degli editori e degli agenti letterari e decidiamo. Abbiamo aperto un settore molto vasto di ricerca nei paesi dell’Est europeo, verso i paesi di lingua araba, Cina, e, parlando in modo molto generico, anche in  Africa (Sud Africa in testa)

Qual è il costo all'incirca per il servizio di valutazione di cui mi hai accennato? E soprattutto, al fine di ottenere la vostra rappresentanza ha senso autoproporsi presso di voi per uno scrittore totalmente sconosciuto? (cioè, in parcentuale, quanti autori che si autoprogongono ottengono effettivaente la rappresentanza?)

Il costo approssimativo è di 350 euro più iva, c’è tutto chiaramente indicato sul sito www.agenzialetterariainternazionale.com alla voce servizi. Raramente capita, ma capita,  che venga fuori qualcosa di pubblicabile da questo servizio (una percentuale di non più del 5% di quello che ci mandano per il servizio di valutazione è buona).

Come valorizzate gli scrittori meno noti su cui decidete di investire?

Semplicemente cercando di proporli agli editori adatti , con le collane giuste, con l’attenzione giusta all’esordiente, insomma con quelle caratteristiche che ci convincano di fare il bene del nostro scrittore. 

Vi occupate anche delle promozione? 

No, non ci occupiamo di promozione in senso letterale , non ci sovrapponiamo agli uffici stampa e di promozione degli editori.

Gestite anche i diritti secondari e le traduzioni estere? Se sì in che modo?

Li gestiamo sempre, il modo dipende dal tipo di contratto che stipuliamo.  In certi casi alcuni  diritti secondari (come per esempio traduzione, book club, antologici eccetera) vengono ceduti all’editore che ne divide i proventi con lo scrittore secondo percentuali stabilite di volta in volta in contratto, in altri casi tali diritti vengono riservati al 100% allo scrittore e allora li trattiamo noi proponendo l’opera agli editori stranieri che incontriamo alle varie fiere a cui andiamo, oppure semplicemente attraverso i nostri contatti e i nostro coagenti nel mondo, oppure, se si tratta di diritti cine tv, sottoponendo le opere ai produttori cinematografici con cui siamo in costante contatto.

Valentina, tu personalmente che idea hai del panorama letterario italiano?

C’è un grande fermento di idee e un grande cambiamento in atto dovuto alla rivoluzione dei mezzi di comunicazione (internet , e book, piattaforme digitali, I Pad  eccetera) . Questo porta e porterà a idee interessanti e nuove. Purtroppo tuttavia spesso i  giovani esordienti italiani sono un po’ troppo autoreferenziali e quindi le loro opere sono asfittiche. Questo almeno è quello che mi capita di osservare dal mio punto di vista particolare.


Grazie mille.


venerdì 18 giugno 2010

E' morto il premio nobel José Saramago

E' morto Josè Saramago, premio Nobel per la Letteratura (1998), aveva 87 anni.

continua... 

Il Primo Amore: Editoria criminale

Riprendo l'inizio di un articolo tratto da Il Primo Amore e lo ripropongo qui perché mi pare un buono spunto per una riflessione sul ruolo delle riviste che si occupano di cultura. Quali sono le vostre preferite? Che idee vi siete fatti in genarale? Cosa pensate di quelle on line? Comprate quelle cartacee? 
E' solo per farmi un'idea :-)




di Andrea Amerio

Chiude la storica «Rivista dei libri», e ho l'impressione che non se la passino troppo bene neppure «L'indice», «Pulp», «il caffè letterario», «Nuova prosa», «Poesia», «Linea d'ombra», «Stilos», «Nuovi Argomenti» e tante altre riviste che hanno scelto di lavorare sulla cultura. Ma intanto ci sono altre imprese editoriali versate su ben altri fronti che fanno affari d'oro, settori che pompano di brutto, consumando risorse secondo la logica della lottizzazione criminale. Ad esempio, dopo aver molto mangiato, a fine aprile naufraga l'orribile, inguardabile, imbarazzante crapula del quotidiano «Il clandestino», parto mostruoso di un'informazione allo stremo. Il grottesco quotidiano messo in piedi da Gian Gaetano e Fabio Caso con i fratelli Luigi e Ambrogio Crespi era partito (malissimo) il 24 novembre scorso sotto la direzione di Pierlugi Diaco - il baby boomer degli anni novanta che ha abbandonato la nave appena prima del collasso
continua qui.

giovedì 17 giugno 2010

Da Giap - Wu Ming: "Quel che pensiamo sul caso Luttazzi"

Riporto da Giap questa riflessione in merito alle accuse di plagio rivolte al comico Daniele Luttazzi. Si tratta di una questione a mio avviso molto delicata che sta facendo discutere da un paio di giorni (qui un altro articolo apparso su l'Unità). Sul blog di Daniele è ben espressa la sua posizione sull'argomento. Personalmente apprezzo molto Luttazzi e continuerò a seguirlo come se nulla fosse.  Mi piacerebbe avere un parere sul plagio (cos'è plagio e cosa non lo è), non solo nella satira ma in generale. 
Qui il video





 
Daniele Luttazzi divorato dai suoi fan, che nel distruggerlo pèrdono una parte di se stessi. E’ il suicidio di una comunità, un rituale auto-cannibalistico. Anzi, no, un carnevale, nel senso bachtiniano. Quando descrisse la dinamica del carnevale, del mondo che si rovescia, Bachtin aveva in mente le purghe staliniane: un giorno eri membro del comitato centrale, potente, riverito; il giorno dopo eri processato da traditore e finivi morto o nel gulag. Il carnevale scarica tensioni, realizza temporanee catarsi, ma non contesta il funzionamento del potere, anzi, ne rafforza i meccanismi. Questo carnevale ci insegnerà qualcosa solo se non ci accontenteremo del lavacro, del sacrificio, di veder punito il reo.
Occorre precisare: reo non tanto di aver copiato, quanto di averlo fatto in modo ambiguo e di avere più volte eluso la questione, reagendo con vittimismo, spocchia e aggressività, conducendo una disgraziata “guerriglia” sul web e gridando a imprecisati complotti.
Dire che Luttazzi ha sbagliato non può essere la conclusione, ma l’apertura di un discorso più vasto. La malafede, parola usata da molti, non è spiegazione sufficiente. Non ci soddisfa dire che uno “è in malafede”, vorremmo sapere da cosa nasce la malafede, perché ha preso quella forma e non altre. Sono in gioco pulsioni profonde. Ipotizziamo che, all’inizio, Luttazzi intendesse omaggiare i suoi idoli comici, poi sia entrato in un vortice che ha cambiato la natura di quei “prestiti”. Luttazzi è a sua volta un fan, e i fan si riappropriano della cultura che amano. Solo che non ci fanno soldi sopra, e soprattutto non impugnano il copyright per impedire ad altri di fare quel che han fatto loro. Ecco il fulcro del biasimo. Che però, appunto, non basta. Chiediamoci cosa sia successo nella testa e nel cuore di un uomo, e ragioniamo sui rapporti tra artista e pubblico, ruolo del comico e comunità dei fan.
Luttazzi poteva fare coming out, aprirsi, rispondere davvero ai dubbi. Avrebbe sofferto, ma meno di quanto soffre ora. L’incapacità di gestire questa storia ha radici in certi “vizi” del Luttazzi blogger, limiti nell’uso della rete, e soprattutto problemi nel costruire un rapporto trasparente coi fan. Luttazzi ha percepito questi ultimi come una minaccia; a loro volta, essi si sono impuntati e dal fargli le pulci son passati a fargli pelo e contropelo, se non addirittura lo scalpo.
Di sicuro, se c’è stato un deficit di fiducia in questo frangente, significa che c’era già prima, latente ma operante. C’era una distanza colma di non-detti. Esisteva una comunità dei fan di Luttazzi? Forse no. Forse il singolo estimatore lo ammirava per conto proprio e qualcosa impediva il formarsi di rapporti orizzontali e reciproci. Forse, per paradosso, una comunità di (ex-)fan esiste soltanto ora: quando i fan hanno deciso di farsi comunità, è stato perché la figura di Luttazzi non li convinceva più e hanno deciso di contestarla.
Quanto peso ha, in questa vicenda, l’investimento che nell’Italia berlusconiana si fa su certe figure salvifiche? Negli ultimi anni i comici si sono trovati a fare supplenza dei leader dell’opposizione. Ciò è malsano, perché porta a vedere nel comico, se non un messia, almeno un incorruttibile paladino, senza le sane contraddizioni dei comuni mortali. Un comico ruba delle battute, viene “sgamato” e viene additato come nemico pubblico. Non esiste nulla del genere fuori d’Italia.
Ironia della sorte, Luttazzi è stato l’unicocomico a evidenziare questo male, ed è il primo a patirne le conseguenze. Pianga se stesso, ok, ma un rapporto sbagliato si costruisce in due. Per citare da un blog: “Come si fa a fare 4.000 km. in bici in venti giorni a 45 km. all’ora di media? Ovvio, si va dal farmacista. Qualcuno vorrebbe vedere un Tour de France corso a 30 km/h o gare olimpiche vinte con tempi due secondi sopra i record attuali? Certo che no. I fan esigono il doping, ma vogliono che il dopato sia ucciso. E’ lecito interrogarsi sul marciume di tale meccanismo? 
Se c’è qualcosa che ostacola l’interrogarsi, è il modo in cui la Rete si trasforma in “macchina ammazzacattivi”. Non c’entra l’intento iniziale di chi – giustamente! – ha fatto le pulci a Luttazzi. Parliamo di un dispositivo che una volta avviato opera in modo inesorabile. Il punto non è chi inizia, ma quanti proseguono e come. Lo vediamo sui social network: tardiva voglia di gridare in coro, di unirsi alla folla per attaccare chi è già attaccato, chi è già stato individuato come “folk devil”, e tutto ciò dalla comodità del proprio tinello, soli di fronte a uno schermo, senza vere assunzioni di responsabilità. Se la cosa era partita come dinamica di intelligenza collettiva, ora prosegue con una mentalità da crociata, resa dei conti finale, raddrizzamento dell’assetto del mondo. Assetto azzoppato dalla nequizia di… chi? Di un comico che ha millantato la paternità di battute! In rete c’è pure chi si rammarica per aver riso di quei jokes. Si fa il processo alle risate di ieri: se non si può più ridere oggi, vuol dire che non si doveva ridere nemmeno prima. “La miseria del presente ha valore retroattivo” (Karl Kraus).
Luttazzi è un artista complesso e poliedrico. Le sue mosse fanno incazzare, ma stiamo attenti a non dipingerlo come un mero parassita. Ha scritto preziosi saggi sulle regole della satira, condotto trasmissioni che hanno lasciato un segno, combattuto contro editti, ukase et similia. Comunque la si pensi, ha innovato il modo di fare satira in Italia, riscattato i primi libri di Woody Allen da pessime traduzioni risalenti agli anni ‘70 etc. A dispetto dei suoi errori, è stato indubbiamente un autore (auctor, colui che aumenta lo scibile).
Può ancora uscirne? Boh. Forse la sua è pulsione di morte. Ha chiesto alla Rete di essere sbranato, la Rete esaudisce il desiderio. E forse i desideri erano tre:
1) voglio far ridere;
2) voglio far ridere come gli americani;
3) voglio morire.
Forse l’ignominia è una forma di gloria. Forse è il finale che, inconsciamente, si era preparato da tempo.
Nessuno osi rallegrarsi di questo.
[Questo articolo è apparso su "L'Unità" del 13/06/2010. E' stato scritto grazie alle persone che hanno discusso con noi in questi giorni, su Twitter e nella "threagedia" messa in scena su Lipperatura.]

Un anno fa domani (Instar) - Sebastiano Mondadori

Un anno fa Domani
Sebastiano Mondadori

Si chiama Vittorio Congedo il protagonista del nuovo romanzo di Sebastiano Mondadori: una contraddizione in termini, un ossimoro, una serie di guai garantiti fin dal nome. La sua è la storia di un professionista, brillante suo malgrado, che a un certo punto si fa tragica, ma non troppo, densa di incontri quotidiani e sorprendenti. Un po' come potrebbe essere la vita se la guardassimo dritta in faccia. Da un anno è morta la moglie Teresa, il suo amore grande e assoluto, nonostante fosse esigente, imprevedibile, sempre "altrove". Ma proprio per questo molto seducente. Gli ha lasciato una inaudita quantità di quattrini, due figlie e la possibilità di dimenticarla subito. Vittorio, però, non ce la farà, continuando a convivere con il suo ossessionante fantasma, con una giovane ragazza, un'altra figlia e una serie di personaggi, davvero indimenticabili, che compongono la sua famiglia d'origine. Una famiglia simpaticamente sgangherata, proprio come lui. Con l'occhio che guarda un po' a Henry Miller, vitale a oltranza, estremo, e un po' a Italo Svevo, ironico e pietoso con gli inetti, l'autore ci trascina in una commedia sentimentale che ormai non può più essere lieve o glamour, ma piuttosto grottesca e beffarda. Come la vita.

Intervista a Sebastiano Mondadori: "Ognuno di noi si compromette a modo suo"

Oggi inserisco una rapida intervista a un amico di questo blog, Sebastiano Mondadori, attualmente in libreria con il romanzo Un anno fa domani (Instar libri) che sta ottenendo un successo davvero notevole e, aggiungo io , meritato (candidato al premio Strega e finalista al premio Viareggio).

I romanzi di Sebastiano sono: Gli anni incompiuti (Marsilio 2001), Sarai così bellissima (Marsilio 2002), Come Lara e Talita (Marsilio 2003), L'importanza delle pulizie. Commedia gialla con 25 disegni di Alessandro Trasciatti (Libratti 2008), Un anno fa domani (Instar Libri 2009).
Ha collaborato con Magazine del Corriere della Sera, Io Donna, l’Unità e Nuovi Argomenti. È stato consulente editoriale per conto di molte case editrici. Ha diretto la collana “Ricerca” per conto di Bruno Mondadori e la casa editrice Cardano . Ha fondato la scuola di scrittura creativa Barnabooth. Il suo sito è www.sebastianomondadori.it



Ciao Sebastiano, senza dilungarmi su quanto sia un piacere averti qui su questo piccolo spazio che è Blogolonelbuio (e sai bene che lo è), parto subito con la prima domanda (oramai quasi standard): Mi racconti il tuo esordio da scrittore? Come hai convinto il tuo primo editore a pubblicarti? Quanto tempo hai dovuto aspettare prima di riuscire a trovarne uno? Come sono state la critica e l'accoglienza del pubblico?

Il mio esordio è del 2001, a trentun anni, con Gli anni incompiuti, pubblicato per Marsilio. Il libro l’avevo finito di scrivere nell’estate del ’98. Dopo un anno e mezzo di rifiuti più o meno motivati ho trovato l’editore. Ho ancora in qualche cassetto la lettera accorata, piena di passione per la letteratura, con cui convinsi Cesare De Michelis. Il giorno dopo mi fece chiamare dalla segretaria e mi convocò in casa editrice a Venezia. È nato un bel rapporto, durato tre libri e tre anni. La critica è stata ottima, e grazie ai numerosi premi mi sono concesso una gran bella vacanza con mia moglie e la allora nostra unica figlia Camilla. Il pubblico invece è stato molto più tiepido. Del resto il romanzo di un esordiente di quasi cinquecento pagine incute legittimi sospetti.

Tu lavori anche in campo editoriale, collabori o hai collaborato in passato con riviste e case editrici, mi descriveresti come vedi lo scrittore esordiente tipico (pregi e difetti)? E come immagini quello ideale?

Io dico sempre che mi ha giovato molto l’insuccesso iniziale rispetto alle mie altissime aspettative, tanto come uomo quanto come scrittore. Il principale difetto di un’opera prima sta nell’esuberanza narcisistica dell’autore, che vuole mettere tutto, troppo di sé, spinto dall’urgenza di dimostrare la sua bravura e ancora incapace di distinguere tra ciò che interessa al lettore e ciò che ha bisogno di scrivere per ragioni personali. È un errore scrivere con la pretesa di essere capiti dagli altri, scrivere significa prima di tutto raccontare una storia. È dai fatti, e non dalle rivalse personali, che prende forma il racconto.
I pregi forse stanno nella freschezza, nella libertà un po’ anarchica e ingenua con cui si butta tutto indiscriminatamente sulla pagina. Per questo è importante avere accanto un buon editor in grado di consigliare, suggerire, in certi casi richiamare all’ordine. Io non l’ho avuto, e oggi mi domando come sarebbe diventato il mio primo romanzo con l’aiuto di un editor.
L’ideale non mi interessa, rimane imbrigliato nelle nostre teste. La scrittura – come la vita – è prima di tutto compromissione con la realtà, e ognuno di noi si compromette a modo suo.

Scrivere racconti su un blog può essere a tuo avviso un modo per attirare su di sé l'attenzione di qualcuno all'interno di una casa editrice e magari ottenere una pubblicazione?

Può essere una via. Il problema dei blog sta nel loro meccanismo per altri versi virtuoso di dare accesso indiscriminato a tutti senza criteri di giudizio. Ci vuole pazienza per pescare il pesce buono nel mare magnum dei deliri.

Tu hai un agente che ti rappresenta? Credi che sia una figura che possa servire? Se sì, quali sono secondo te le agenzie più affidabili?

Io sono rappresentato da Grandi&Associati, che è una delle migliori agenzie in Italia. Ho un eccellente rapporto con Stefano Tettamanti e non posso che consigliarlo, anche se giustamente lui e l’agenzia sono molto selettivi nella scelta dei loro autori. Per chi vuole esordire consiglio sempre di investire quei quattro-cinquecento euro per essere letti e giudicati da un’agenzia. Invece che buttare il doppio se non il triplo dei soldi in una pubblicazione finanziata, avranno un parere attendibile sul valore del loro testo e nel caso ne valga la pena anche dei consigli concreti. Ci sono bravissimi agenti come l’Ali (Agenzia Letteraria Internazionale), Santachiara, Vigevani, Bernabò, Nicolazzini, Kylie Doust e un’altra buona dozzina. Ci sono anche dei ciarlatani però, per cui è fondamentale informarsi sempre prima di rivolgersi a un’agenzia che promette più di quanto possa mantenere scucendovi un sacco di soldi.

Parlami un po' del tuo Un anno fa domani (Istar libri - candidato al premio Strega 2010). Quanta fatica costa scrivere un libro così?

Un libro costa sempre fatica. È il mestiere che ho scelto e so bene che esistono fatiche molto più gravose. Il romanzo nasce dall’idea di raccontare l’ossessione amorosa di un uomo, Vittorio Congedo, che non riesce a liberarsi del fantasma della moglie Teresa, morta un anno prima in un incidente stradale la cui dinamica diventa sempre meno chiara nello sviluppo delle vicende. La storia si svolge nell’arco di due giorni, nel corso dei quali Vittorio beve incessantemente, e culmina nel matrimonio della cugina nella villa di famiglia in Toscana alla vigilia e nel giorno della finale dei Mondiali di calcio del 2006, dove Vittorio deve fare i conti con il proprio passato, la seconda moglie ventenne, l’azienda di famiglia e una verità che non vuole accettare.

Be', la domanda finale oramai è d'obbligo... chi vince lo Strega?

Se dovessi scommettere, punterei sulla Avallone perché Sorrentino lo pagherebbero alla pari.

mercoledì 16 giugno 2010

Un racconto di Alessio Arena: Le stelle, in fila indiana, poi si lavavano la faccia

Oggi ho scelto di pubblicare il racconto «Le stelle, in fila indiana, poi si lavavano la faccia» di Alessio Arena. Si tratta di un racconto che reputo estremamente interessante sia per il modo con cui Alessio ha diligentemente costruito la storia, dosando con abilità le informazioni che ci vengono rivelate e indovinando tutti i tempi, sia per quanto riguarda il linguaggio scelto, su cui spesso si incespica ma che riveste di un alone di credibilità una trama ricca di elementi surreali. Lo sguardo al sociale vigoroso e amaro che emerge dal racconto fanno di Alessio, a mio semplice avviso, uno degli scrittori italiani più acuti della sua generazione. Un racconto che vi consiglio.



Le stelle, in fila indiana, poi si lavavano la faccia 

di Alessio Arena


Gli occhi ci fanno sempre male.
Verso sera cominciamo a sentire quel bruciore fastidioso, quel luccichio che gira intorno, come se dietro agli occhi avessimo due piccole cose che sono come due piccole stelle.
Quando non stiamo molto coperti vediamo quasi tutto quello che ci passa davanti.
Quello che vediamo quando ci mettono rivolti verso la strada, quando ci sistemano con il mento verso l'alto e ci tolgono gli occhiali, ci puliscono gli occhi con il glassex che usano pure per la vetrina.
Questa è la strada dove stiamo: le panchine e le borse che vanno e vengono.
Ogni mattina la luce è diversa, le insegne del Bar Puoti e della salumeria all'angolo si scoloriscono e fanno così e così come le luci di Natale.
Ogni giorno i balconi del primo e il secondo piano, la pattuglia dei carabinieri sul marciapiede, le coppie, i bambini che si sono persi.
Ogni pomeriggio le coppie di ragazzi, le coppie di ragazze, le coppie di anziani, le persone sole ben vestite, quelle che ci guardano con la discrezione del vicino abituato a considerare il look di questa piccola comitiva di manichini inespressivi.
A noi gli occhi ci fanno sempre male perché vediamo tutto quello che passa.
Qualcuno a volte ci guarda dentro agli occhi, come per vedere il prezzo di quello che sta per comprare.
Oppure Don Raimondo il pazzo che dorme sotto alla galleria con i suoi due cani a volte si ferma e ci guarda fisso, come se stesse per dirci qualcosa. Ma non dice mai niente.
Qualche volta forse si è accorto che tremavamo, l'aria condizionata del negozio ci uccide più del glassex dentro agli occhi, e a volte la pittura che abbiamo sulla bocca diventa più scura, non dobbiamo mai dare a vedere com'è difficile restare immobili dentro a questa vetrina, va a sapere fino a quando.
A volte ci cambiano il posto, lo stesso venditore che ci ha scelti nel magazzino di Arcangelo Roccocò ci vende a un altro negozio, spesso per qualche difetto, e perché è sicuramente più facile contrattare uno scambio con qualche commerciante della zona, piuttosto che chiamare mille volte al numero di Arcangelo, il nostro adorabile costruttore, che nessuno di noi ricorda di avere mai visto.
Tutti i manichini però a Arcangelo gli vogliamo bene.
Gli vogliamo bene perché ci fa tutti quanti magri, belli asciutti, alle donne ci mette dei seni duri e ben equilibrati, i fianchi non molto larghi; agli uomini ci scolpisce i pettorali come i nuotatori, ci fa questa mascella squadrata come gli attori di Hollywood.
Tutti noi a Arcangelo gli volevamo bene prima che uscissimo dal suo magazzino, quando non avevamo gli occhi.
Poi ci siamo trovati in quel camion sull'uscita dell'autostrada per Castellammare, uno addosso all'altro, uno incastrato con l'altro come ci piace restare la maggior parte del tempo, non vedevamo ancora niente, ma pensavamo che era così che dovesse andare.
Poi ci hanno divisi, ci hanno fatto scendere, e ci hanno staccati, molti di noi sono andati sul Vomero, nei negozi di Via Scarlatti, alcuni dentro alla Maddalena, dove i cinesi ci hanno messo quei camici e le mascherine, la divisa dei pompieri, e i cappelli dello chef, molti altri invece ci hanno portati al centro, e nella Riviera di Chiaia, ci hanno messo mani dappertutto, spogliati e rivestiti con taglie diverse, ci hanno infilzati con gli aghi che sostengono il cartellino del prezzo, soprattutto a quelli della merceria di Piazza Dante, dove ci hanno addirittura svitato gambe e braccia, per esporle singolarmente con quelle calze che puzzano di naftalina.
Arcangelo Roccocò non si è fatto mai vedere, e nessuno di noi sa a chi chiedere aiuto.
Siamo sempre di più, dal magazzino di Castellammare arriviamo sempre in molti a dividerci per tutta Napoli, e adesso pare che Arcangelo continui a sfornarci con diverse abilità e funzioni.
Alcuni siamo manichini seduti e obbedienti, manichini da studio, manichini per uso domestico, altri manichini da compagnia per persone sole, manichini che si prendono cura degli anziani, e infine ci sono i manichini addormentati.
Eravamo in due o tre, in quella vetrina della Eminflex sul corso Malta, una vetrina allestita con uno splendido enorme materasso ergonomico terapeutico sfoderabile a sacco con cerniera divisibile su quattro lati.
Così, dormendo davanti agli occhi di tutti, abbiamo iniziato anche a sognare.
Arcangelo Roccocò aveva i capelli quasi biondi, lunghi, come una madonna, ma la barba ispida, rossiccia, il naso che non finiva mai e due lunghi aghi negli occhi, due piccoli pezzi di carta appesi, due prezzi scritti sopra che non facevano nessuna somma.
Arcangelo Roccocò ci disse che ci avrebbe abbandonati, che sarebbe scappato da Napoli per salvarsi la vita.
E ci svelò questo segreto: l'asteco chiove e 'a fenesta scorre.
Da quel giorno gli occhi ci fanno sempre più male, tanto che all'improvviso, una mattina, abbiamo visto passare un manichino per la nostra strada.
Lo abbiamo visto obbedire alle pesanti norme della gravità umana, il passo disinvolto, vestito come se egli stesso avesse scelto ogni capo, ogni accessorio.
Abbiamo visto questo manichino prendere appuntamento con una ragazza magra, dai seni duri e ben equilibrati, così che erano già in due.
E dopo tre, quattro, cinque, sei, dodici, ventinove, i manichini sono usciti da qualsiasi posto, hanno iniziato a correre per strada, a entrare e uscire dai negozi pieni di borse, a cadere a terra ogni tanto, ma a rimettersi a posto subito dopo, a parlare col telefonino, a scrivere un messaggio, aggiustandosi la cintura o toccandosi il pacco, sopra ai motorini a due a tre, mamma padre e figlio, senza casco, scendevano da sopra ai quartiere spagnoli con le granite di orzata.
Adesso è Ferragosto.
In tutta la città Ferragosto è un boato, uno scricchiolio di manichini abbrustoliti al sole, la gente è sparita, tutta la gente di Napoli a Ferragosto sta a Ischia, o a Baia Domizia, o noi che ne sappiamo.
Non ci sta nessuno adesso, ma anche quelli che c'erano prima sembrava che già stassero sparendo a poco a poco, fuori al Banco di Napoli di Via Roma non abbiamo mai più visto una fila, e le guardie giurate stavano lì a fumare cento sigarette con gli occhi a mezz'asta, il traffico di Santa Teresa si era fatto più calmo all'improvviso, e i marocchini che vendevano i fazzoletti al semaforo avevano lasciato un cartello dove stava la loro sedia, con scritto torno subito.
Era come se le persone avessero cominciato ad avere paura di noi, da quel giorno che sul Corso di Secondigliano, all'incrocio con il supermercato nuovo, un manichino aveva letteralmente svitato la testa ad un altro che gli stava rubando la macchina nel parecheggio.
Gliel'aveva svitata la testa e poi, simulando una specie di respiro, un urlo inumano, legnoso, compatto, l'aveva lanciata così lontano, e così forte, che si racconta l'avessero vista rotolare fino allo sbocco della Doganella, precipitata alle porte del vecchio cimitero, tanto da creare un solco attorno a sé, la prima fossa di quello che sarebbe diventato il cimitero dei manichini.
Poi è iniziata la piccola guerra.
I manichini si sono divisi tra Secondigliano, San Giovanni a Teduccio, Sanità. Ogni uno si è fatto responsabile del proprio spazio che adesso non è più una vetrina di un negozio.
Adesso è Ferragosto, ci sono stati due casi di annegamento di manichini al Bagno Elena di Posillipo, una rissa fuori allo Chalet Ciro di Mergellina, e un concerto di Gigi d'Alessio allo stadio San Paolo solo per manichini. Tutto esaurito.
Quei due o tre che stavamo nella vetrina del Corso Malta a dormire ce la passiamo male con questo caldo. Noi non siamo le statue del Museo Nazionale, con questo caldo abbiamo la sensazione di prender fuoco da un momento all'altro.
Gli occhi ci fanno sempre male.
Verso sera cominciamo a sentire quel bruciore fastidioso, quel luccichio che gira intorno, come se dietro agli occhi avessimo due piccole cose che sono come due piccole stelle.
Poi il sogno di Arcangelo Roccocò ci viene a cercare.
Arcangelo Roccocò sta seduto su un trono in mezzo alle nuvole, con una barba come Mosè, o il profeta Isaia.
Siamo prima noi a parlargli, a chiedergli in che cosa abbiamo sbagliato, perché non tutti i manichini siamo uguali, e vediamo allo stesso modo, e ci svitiamo l'un l'altro, ci siamo presi ognuno la sua casa, il suo quartiere, e ogni tanto facciamo trovare qualche testa di manichino in mezzo alla strada, vicino a un cassonetto, sopra ai banchi del mercato della frutta, all'ora di punta.
Lui allora ci svela quest'altro segreto: 'o mellone è 'sciuto janco e rumpe 'o cazzo a 'o verdummaro.
Non possiamo chiedere a Arcangelo Roccocò che ci dica altro, che ci spieghi meglio cosa fare.
Ma forse, più in là, ci convinceremo che anche lui, un giorno, sia stato un manichino.
Questa è la strada dove stiamo: una notte che dura sempre poco, a Ferragosto, dentro e fuori le vetrine della città, e un sacco di stelle, quelle sí che ci fanno male agli occhi, le stelle, in fila indiana, che poi si lavano la faccia.


Alessio Arena: Nato a Napoli nel 1984. E' scrittore e cantante. Suoi racconti sono apparsi su diverse antologie e sulle riviste Linus, 'Tina, Colla, Calle 20 oltre che su Nazione Indiana. È scelto per far parte dei sette narratori italiani nati negli anni ottanta nella sezione monografica del numero 41 di Nuovi Argomenti intitolato “Non ancora trentenni”. Il suo primo romanzo è  L’infanzia delle cose (Manni, 2009), premio Giuseppe Giusti Opera Prima. Nel 2009 partecipa alla quarta edizione di Esor-dire (nell’ambito della manifestazione Scrittorincittà a Cuneo), dove vince il premio del pubblico.
Attualmente vive in Spagna, dove scrive teatro e dove lavora al suo prossimo libro, il primo in lingua spagnola, Todos los jueves de tu boca.
La sua email è  alessioarena@hotmail.com
Related Posts with Thumbnails