Il racconto di oggi si intitola Una moglie devota, scritto da Marco Negri.
Per introdurci in un mondo fuori prospettiva Marco usa un narratore onnisciente che potrebbe sembrare esterno alla storia ma che è in realtà un personaggio attivo (che immagina oppure osserva in prima persona ciò che accade). Gli inganni della prospettiva sembrano continuare con le "inquadrature" dall'alto che vengono offerte in più occasioni, fino ad arrivare alla scena finale dove ogni cosa torna, seppur rovesciata, al suo posto. Un buon ritmo di scrittura e qualche guizzo stilistico trasformano infine un'idea non proprio innovativa in un racconto che si dimostra di buona qualità e di cui consiglio sicuramente la lettura.
Una moglie devota
di Marco Negri
«Dove sei?» chiede Giorgio. Ascolta la risposta poi appende.
Mentre appoggia il telefono, forse incrocia lo sguardo della moglie che esce dalla doccia, coi capelli arruffati e la luce del tardo pomeriggio riflessa sulla pelle umida e tesa. Lei lo fissa confusa, col disegno leggero delle labbra fini dischiuso a indicare un vago stupore, e una domanda sospesa tra i denti bianchi: “Che diavolo ci fa già qui?”
Poi l’occhio le cade tra le lenzuola del letto sfatto e sconvolto, passa alla bottiglia di vino ormai vuota che riposa sdraiata sul pavimento, e si inchioda sulla scatola di Viagra abbandonata sul comodino.
E suo marito, Giorgio, la fissa a sua volta. Anche lui fedele al silenzio.
Forse. Oppure esce e basta.
Comunque Laura prende il telefono e chiama quel numero.
«Orlando» attacca con una voce quasi divertita. «Ha capito! Sta venendo da te?» chiede ma riparte subito, spinta dall’emozione. «È tornato prima dall’ufficio» tentenna, poi si affretta ad aggiungere, «non so come mai. Sono uscita dalla doccia ed era lì, con il mio cellulare in mano. Ha trovato il tuo messaggio, credo, l’ha letto e ti ha chiamato, vero?» Un fruscio riempie la pausa tra la domanda e la risposta che non arriva: Laura si pettina i capelli.
«Chissà cosa ti dirà» continua. «Oh dannazione!»
Qualcosa nella stanza tocca terra.
«Orli, la spazzola, è finita sotto il letto, che palle. Ora mi chino a prenderla, peccato tu non sia qui…»
Giorgio, in quel momento sta scivolando giù dalle scale, scendendo i gradini con quel passo attento e preciso che aveva fin da bambino, quando passeggiava per ore con la madre, prima che lei lo lasciasse per un tumore al seno del tutto guaribile.
Se avesse lottato.
Col suo camminare da soldatino, compare dal portone del condominio ed esce. In strada, una mano alzata lo ferma. Giorgio blocca i piedi con un’espressione simile a gratitudine.
Elio Domenichini, detto Polemica, gli si ferma a pochi centimetri dalla faccia e subito inizia a parlare gesticolando in ogni direzione, sparando le braccia a destra e sinistra. Da tempo in guerra con l’assemblea condominiale, deve aver visto in Giorgio l’alleato ideale.
«Orla?» continua Laura recuperando la cornetta dopo essere riemersa da sotto il letto. «Perché l’abbiamo fatto?» Si perde in una bolla di silenzio, poi riprende. «In fondo noi eravamo la sua famiglia, no?» Pausa. «È che a lui stava bene» continua con la sua graziosa abitudine di rispondersi da sola. «Non si è mai opposto. Ma io comunque so il motivo.» Altra pausa. «Lo vuoi sapere?»
Giorgio incrocia le mani dietro la schiena mentre il Polemica indica con furia qualcosa per terra: tira su le braccia e le sbatte giù. Su e poi giù. Ogni gesto è accompagnato da un verso della bocca. La spalanca lasciando uscire chissà quale imprecazione. Parole idrofobe che non sembrano interessare Giorgio: osserva catatonico la scena, come di fronte a un intermezzo pubblicitario.
Un gruppo di passanti gli gira intorno; visti dall’alto sembrano un fiume in secca che avvolge un’isoletta di terra e sabbia. Sono tre coppie sulla sessantina, appena uscite dalla vicina sala da ballo. Tirati a festa, gli uomini abbracciano le rispettive compagne. Ridono.
Giorgio li segue con lo sguardo, passando da uno all’altro. Osserva anziani signori e magari prova invidia: rivede sua madre in ospedale, vent’anni prima. Sua madre che non sarebbe mai diventata vecchia, ma solo un pensiero fisso nella testa. Sua madre che poco prima di morire friggeva parole dicendo all’uomo che aveva sposato che ora lo lasciava libero. Libero di fare ciò che voleva, senza intralci. E lui che non negava ma solo le diceva: «Te la prendi troppo».
E Giorgio, quindici anni, nascosto fuori dalla porta, aveva forse imparato che il tradimento fa male se te la prendi troppo.
«Lui odia il sesso» dice Laura, mentre con la mano libera apre un qualche tipo di barattolo. «Sì, ci ho pensato parecchio. A letto con me non viene mai. In cinque anni forse tre o quattro volte. Se esco, non si preoccupa di sapere con chi, non lo sfiora nemmeno. Vuole solo che torni a casa la sera. Credo non gli vada di stare solo.» Si blocca un istante, forse a riflettere se questo dettaglio possa avere una qualche importanza. «Ma non mi sono data per vinta. In fondo è mio marito e l’idea che non voglia fare sesso con me non mi va giù. Più che altro mi sembra impossibile!» e si lascia andare in una risata stridula che suona ihihih. «Ho provato a scuoterlo in tutti i modi, sai?» prosegue. «Tornando a casa con reggiseni strappati (in questo c’entri tu), mazzi di rose (qua no, non sei così romantico), succhiotti, lividi e involucri di preservativi sparsi in ogni angolo della macchina. Niente, neanche una parola. E allora, per spronarlo, rimaneva un’ultima cosa da fare.»
Il Polemica lotta con la cerniera del giubbotto. Si agita, di sicuro sbraita. Infine riesce a liberare il cellulare e lo porta all’orecchio. Dopo qualche istante chiude la comunicazione e si congeda tra mille gesti sparsi a mezz’aria.
Giorgio lo osserva entrare nel palazzo. Indugia. Poi si anima e si accosta alla strada per attraversare.
Arrivato sull’altro lato si avvicina e…
«Orli ti vedo! Sei anche tu alla finestra.»
Alzo lo sguardo dal marciapiede e punto il palazzo di fronte: Laura è in perizoma, mi fissa e saltella sbracciandosi con la mano libera.
Il citofono suona.
«Devo andare, tesoro» dico. «È arrivato.»
Appoggio il cellulare, apro il portone al piano terra, poi resto in ascolto: il ronzio cigolante dell’ascensore che si ferma. Passi sul pianerottolo. La porta si schiude. Silenzio. Occhi sospesi nella stanza. Un sospiro.
Non resisto, parlo io. Un modo come un altro per liberare il cumulo acido che mi riempie lo stomaco. Mi gonfio d’aria. Cerco il tono giusto. Chiedo: «Agitato il vecchio Domenichini, eh?»
Giorgio mi fissa, quasi mi vedesse solo in quel momento. Lascia alcune parole senza fiato galleggiare appena fuori dalle labbra, poi risponde: «Già».
«Sempre in guerra con tutti?» continuo deciso a spingere il discorso lontano da me.
«Ci sono delle infiltrazioni d’acqua nella terrazza sopra casa sua, o così racconta» dice con mille pause tra una parola e l’altra, «e vorrebbe che fosse il condominio a pagare.»
«Perché se la prende con te?» domando e conto di sembrare protettivo col mio atteggiamento.
«Non se la prende con me, vuole un appoggio in assemblea.»
«In cambio di cosa?»
«Non lo so, non lo ascoltavo. Avevo altro per la testa.»
«Però, è un bel furbetto!» scivolo via dalla sua allusione e butto un po’ di ilarità nella frase, intanto mi verso un bicchiere d’acqua che non bevo. «Eh» continuo, «dopo una certa età si diventa tremendi.»
«Già» scuote le spalle. «C’è sempre qualcuno che cerca di fotterti» risponde secco Giorgio, liberando di nuovo il silenzio contro di me.
«Certo, poi da uno che chiamano Il Polemica cosa ti aspetti?» dico in fretta e provo a ridere, ci riesco in parte e in parte tossisco.
«Sapevi» prosegue alzando la voce spezzando in due le mie divagazioni nel nulla, «che la prima regola per un buon matrimonio è lasciare spazio al proprio partner?»
All’improvviso la mia loquacità evasiva è azzerata, ridotta a un niente silenzioso. Non capisco dove le sue parole vogliano arrivare. Non rispondo.
«Io sono sempre stato un fermo sostenitore di questa regola. E di spazi, a mia moglie, gliene ho sempre lasciati, perché sai» ora parla veloce, senza pause, «non c’è niente di più fastidioso che essere interrotti mentre si fa qualcosa di piacevole. Giusto o sbagliato che sia. Pertanto, a me piace pescare» apre un piccolo vuoto nel discorso che mi trascina nel nero scuro della confusione, «una passione come un’altra. La settimana scorsa ho conosciuto un collega, su in amministrazione, che ha una barca. Un motoscafo, niente di che, otto metri con una coppia di Mercury da ottanta cavalli. Ieri mi ha proposto di uscire prima dall’ufficio per fare un giro in mare.»
Sono in piedi, mi sento scomodo. Se mi sedessi sarebbe lo stesso.
«Però tu capisci» continua, «il traffico della città e la bella stagione invogliano ad andare in ufficio in moto, ma non potevo portarmi tutta l’attrezzatura da pesca nello zaino e allora lascio un biglietto sul comodino di mia moglie e le ricordo che alle quattro sarei passato a prendere le mie cose.» Mi fissa. «Non invadere gli spazi è una cosa importante.»
Cerco di pensare cose tristi e dolorose: un cervo abbattuto, il piccolo del cervo che annusa il corpo senza vita e ancora non capisce, incerto sulle zampe fragili, e in lontananza il ringhio dei cani è sempre più vicino. Mi chiedo se la mia espressione è abbastanza afflitta.
«Ma» continua Giorgio, «immagino che per il cervello di una donna qualche ora sia sufficiente per elaborare quello che si può definire un piano. O quella che, con notevole sforzo, potrei definire una specie di terapia.»
Ripesco un dettaglio dal vaneggiamento di Laura, poco prima al telefono. Abituato a non dar peso alle sue parole, non avevo intravisto nulla in quella semplice frase: ...rimaneva un’ultima cosa da fare.
E l’aveva fatta.
«Di fronte alla verità, anche il più viscido tra i meschini offre un minimo di onestà» aggiunge, poi tace.
Onestà, certo. Ma il più viscido tra i meschini l’onestà non può concederla così, senza filtri.
«Ti ricordi» dico con una nota rauca per il troppo silenzio, «quando facevi le gare di pesca? Quella volta che eri a letto con la febbre e avevo preso il tuo posto? Tua mamma non voleva, diceva che mi avrebbero squalificato. Invece nessuno si è accorto di niente e abbiamo vinto!»
«Già. Sei sempre stato molto protettivo. Quasi un fratello.»
In quel momento qualcosa cede. Dentro di me o fra di noi. Io passo le mani tra i capelli, privo di parole dietro le quali nascondermi.
Lui continua: «Come in terza liceo, quando un tale di quinta mi aveva preso a pugni per farsi bello davanti alla mia ragazza. Sei andato a prenderlo la sera stessa con i tuoi amici. Non è venuto a scuola per una settimana».
Aggrotto le sopracciglia. «Beh, eri gracile all’epoca e troppo timoroso. Vedevi in tutto una sfida più grande di te. Io sentivo il bisogno di intervenire per indicarti la strada.»
Giorgio annuisce piano con la testa. Il suo cellulare suona. Legge il numero. Mi guarda. «E me l’hai indicata» dice, poi risponde: «Sì, amore». Ascolta. «No, ora non posso.» Silenzio. «A dopo, piccola.»
Mentre abbassa il telefono seguo il suo sguardo: mi trascina oltre la stanza, fuori dalla finestra, fino al palazzo dall’altra parte della strada.
Socchiudo gli occhi e metto a fuoco Laura sul balcone, in topless sotto il sole con le braccia aperte. Le mani vuote: tra le dita solo aria.
«Sei bravo.»
La voce di Giorgio mi riporta dentro. Ma non è lui a parlare, solo ora me ne accorgo: è un’altra persona. Diversa. Evoluta. Cambiata.
Balbetto senza frasi utili da dire.
Il non più lui mi fissa divertito. Poi riprende: «Sei bravo a colmare le mie mancanze. Ma non è ora di finirla, papà?»
Biografia Marco Negri ha esordito nel gennaio 2008 con il romanzo giallo Il giorno del gabbiano (edizioni Il Filo), il cui seguito, In un punto morto, è arrivato finalista al premio letterario Giovane Holden 2010. Ha pubblicato alcuni racconti con Giulio Perrone editore e Delos Books, e collabora con il quotidiano on-line “Varese news”.
Il suo indirizzo email è: info@marconegri.info
2 commenti:
Il finale è certamente inatteso. La scatola di Viagra e la bottiglia di vino, il reggiseno strappato vogliono rendere la foga, ma non trovo molto verosimile la posizione del narratore. E' costruito molto bene formalemente, e anche le situazioni, rileggendolo, concordano pienamente con il finale. Solo che a livello di sensazioni lo sento poco vero dal punto di vista del narratore. Da una situazione che intreccia sessualità di certo, ma anche affetti combattuti, credo, mi aspetterei maggior travaglio. O forse, Orlando è una persona molto più semplice di quella che mi ero immaginata, e allora...vada così com'è.
La posizione del narratore può essere discutibile, ma dipende dal punto di visto dal quale lo si guarda. Trovo comunque che sia scritto bene sia come qualità che come costruzione e sviluppo della trama il che non è scontato per il genere in questione
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