mercoledì 23 giugno 2010

Domenico Procacci: Troppi editori conformisti e premi poco trasparenti

Ripropongo di seguito una interessante intervista a Domenico Procacci (produttore cinematografico e fondatore di Fandango) uscita qualche giorno fa su La Repubblica - R2 Cultura. L'intervista è a cura di Antonio Gnoli. Un attacco duro a un mondo, quello editoriale, incapace di rinnovarsi.




La sfida di Procacci: "Troppi editori conformisti e premi poco trasparenti"

 di Antonio Gnoli

L'orecchino al lobo sinistro, gli stivaletti un po' consumati, l'aria di quello "che ci faccio io qui", un po' sorniona e un po' trasgressiva, così si presenta Domenico Procacci, patron della Fandango, un'impresa multipla che annovera ovviamente la produzione cinematografica, la casa editrice, una radio e un settore di produzione musicale. La sede è a Roma, in una palazzina a più piani dove si respira un'aria democratica, rilassata, in qualche modo controcorrente rispetto alle formalità che in genere avvolgono la sede di un'azienda.
La Fandango libri compie dieci anni. E nel tempo è diventata una bella realtà: all'inizio pochi libri, oggi una cinquantina di titoli l'anno, circa tre milioni di fatturato, cui va sommato un altro milione se si considera la recente acquisizione della Coconino, una casa editrice specializzata in fumetti, peraltro bellissimi. Dieci anni che verranno in qualche modo festeggiati con l'uscita in ottobre del nuovo romanzo di Sandro Veronesi. Titolo un po' misterioso: XY, per un romanzo a metà strada tra il thriller e il racconto filosofico. A cinque anni da Caos Calmo che vinse lo strega, la curiosità e le aspettative sono alte.

Tiratura iniziale tra le 150 e le 200 mila copie. 
 «L'investimento che abbiamo prodotto è adeguato all'evento letterario e mi piace che coincida con il decennale della casa editrice».

Intende dire che lo sforzo sarà analogo a quello che produceste per Questa storia di Baricco?
«Legato all'importanza che rivestono certi scrittori che hanno creduto nel nostro progetto. E, tra l'altro, il romanzo di Baricco andò benissimo».

C'è chi ha sostenuto che è andato meno bene dei libri che Baricco pubblicò con Rizzoli.
«E' un'affermazione infondata. Il libro ha venduto oltre duecentomila copie, è stato primo in classifica per quattro settimane. Direi pienamente in linea con i suoi precedenti lavori. Baricco del resto ha un pubblico che lo segue a prescindere dalla casa editrice con cui pubblica».

Però il gruppo Rizzoli non digerì quella specie di scippo. Di beffa contro natura: il piccolo che mangia il grande. Non si era mai visto che autori affermati come Baricco, Veronesi e lo stesso Nesi lasciassero la casa madre per andare altrove.
«A parte che Nesi continua a pubblicare per Bompiani, dov'è lo scandalo? Il momento importante per noi coincise con l'arrivo di Rosaria Carpinelli che era l'editor della Rizzoli. Con lei abbiamo rifondato la casa editrice».

Rifondata cosa vuol dire?
«Quando la Fandango libri è nata si pensava di fare pochissimi titoli e soprattutto di autori non italiani. Ci piaceva poter dare al pubblico Infinite Jest di Foster Wallace o pubblicare i romanzi di John Cheever. Ma era una politica del fiore all'occhiello, dell'hobby nato dalla testa di un produttore cinematografico. Poi siamo cresciuti e siamo stati in grado di affrontare non solo la narrativa straniera ma anche quella italiana, la saggistica, il fumetto».

Come ha convinto scrittori affermati a venire alla Fandango?
«Se non pensassi che su certi libri posso fare lo stesso lavoro dei grandi editori non avrei proposto prima a Baricco e poi a Veronesi di pubblicare con noi. La vera differenza si sente soprattutto con gli autori meno noti, qui facciamo più fatica di un grande editore a imporli all'attenzione dei lettori».

Avete sempre il vantaggio del cinema. Un bel romanzo può diventare un film e viceversa.
«Non è così semplice, anche se i punti di contatto ci sono. Nel senso che in entrambi i casi si tratta sempre di raccontare storie. Cambia naturalmente il mezzo, il linguaggio e gli investimenti sono diversi: se sbagli un libro poco male, se toppi un film la cosa è certamente più grave».

Due forme d'ansia diverse?
«Per natura non sono ansioso. Diciamo che il gioco che porto avanti nel cinema è lo stesso che pratico con i libri: andare dietro al proprio gusto, pubblicare ciò che ci piace e capire se è un discorso limitato a me e alle persone che mi circondano, oppure intercetta anche il gusto del pubblico e quindi diventa qualcosa di più emozionante».

E cosa ne ha concluso?
«Non penso che la qualità sia necessariamente per pochi. Ecco, se un'ansia mi viene è quella di sapere se un libro o un film piacerà solo a noi o anche agli altri».

Lei interviene sui libri con la stessa determinazione che ha con i film?
«Per la parte letteraria so di essere molto meno competente».

Ma di fronte a un romanzo che non le piace e che i suoi collaboratori caldeggiano, lei che fa?
«Non è mai accaduto che un libro portato da quelli che lavorano con me non mi sia piaciuto. C'è del resto un rapporto di fiducia e di stima senza il quale non costruisci niente».

Ha il tempo di leggere tutto quello che passa dalla casa editrice?
«Come potrei? Cerco naturalmente di informarmi il più possibile, ma ormai non ce la faccio più. La Fandango è cresciuta nei titoli e negli impegni».

Quanto tempo le dedica?
«Diciamo un trenta per cento, il resto va alla Fandango cinema».

Come vive la crisi del libro e del cinema?
«Se il raffronto lo si fa con altri settori la situazione non è così compromessa. Per quanto ci riguarda non abbiamo subito particolari contraccolpi. Registriamo una crescita anche se lenta, sia col cinema che con i libri. In ogni caso il cinema si muove a una velocità maggiore dell'editoria».

Intende dire che i libri spostano poco?
«Non solo questo. Diciamo che nel mondo dell'editoria c'è una generale accettazione di quello che si è. C'è molto conformismo e quieto vivere. Ogni tanto scoppia qualche petardo, ogni tanto qualcuno attacca un premio o un editore concorrente, ma alla fine tutto resta com'è. L'editoria somiglia a un fossile e questo mi preoccupa».

E non la preoccupa che il maggior premio letterario, ossia lo Strega, siano sempre gli stessi editori a vincerlo?
«Sono l'ultimo arrivato e mi muovo con difficoltà nel mondo dei premi letterari. Noi abbiamo il libro di Lorenzo Pavolini Accanto alla tigre che concorre allo Strega. Come produttore di film ho preso posizione sul premio Davide di Donatello, chiedendo che fosse cambiata la giuria, perché da quando è stata molto allargata ha perso di qualità. Poi un giorno mi hanno raccontato come funzionava lo Strega, sono rimasto a bocca aperta. Tutto quello che nel mondo dei premi cinematografici mi sembrava non avesse sufficiente limpidezza, improvvisamente mi è parso trasparente rispetto ai maggiori premi letterari e in particolare allo Strega».

Eppure vi partecipa.
«Non voglio fare del moralismo, né gridare allo scandalo. Ho imparato che lo Strega funziona per blocchi di potere, che le grandi case editrici controllano molti voti. Vincere quel premio significa incidere sui numeri del venduto, significa a volte costruire una carriere letteraria, significa rafforzare un editore. Dovrebbero esserci regole condivise da tutti. Ma se non riesco a cambiare le cose nel mondo del cinema, dove ho un ruolo molto più forte, come posso pensare di incidere sulle regole dello Strega con una semplice polemica? Il premio riflette l'immagine della realtà editoriale italiana, che è sostanzialmente immobile. C'è un'accettazione passiva delle cose. Lo scenario va cambiato, ma non basta fare casino, occorre creare condizioni diverse».

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