Il libro di cui parliamo stavolta è “L'amore degli insorti”
di Stefano Tassinari. Il motivo per cui lo facciamo – a otto anni di distanza
dalla sua pubblicazione e a quasi un anno dalla morte dell'autore – è il fatto
che, a breve, questo libro (originariamente edito da Marco Tropea Editore) sarà
ripubblicato per le Edizioni Alegre.
Tuttavia non è facile parlarne. Nella quarta di copertina
c'è una frase di Massimo Carlotto, ripresa da “il manifesto”, che fa così:
“Dopo aver letto i romanzi di Stefano Tassinari si ha voglia di pensare e
discutere. Di memorie e di utopia”. Sì, perché “L'amore degli insorti” è una riflessione ampia
sugli anni '70. Anni di attivismo e di politica. Due cose che, in alcuni casi,
sono stati sinonimo di lotta armata. Ed è proprio su quest'ultima che Tassinari concentra il suo
racconto. Attraverso la vita di Paolo Emilio Calvesi, architetto apprezzato
oggi, ma con un passato ingombrante, nascosto a tutti, persino a sua moglie. Un
passato che torna, all'improvviso, attraverso lettere, foto, oggetti che una
certa Sonia di volta in volta gli spedisce. Tutte cose che parlano a
quell'epoca, quando Paolo aveva intrapreso – come molti altri giovani – la
strada della lotta armata, dalla quale era uscito scampando a condanne e
carcere. Ed è proprio la paura di questo passato, per decenni cancellato, la
paura di finire in carcere dopo così tanti anni, a gettarlo nel panico. Paolo si estranea da tutto, dal suo lavoro, dalla sua
famiglia e si getta nei ricordi di quegli anni. Gli incontri, gli amori, le
riflessioni. Attraversa la sua vita, tornando anche a Roma, la città dove era
nato (anche politicamente) e dalla quale, nella sua seconda vita da
professionista, si era sempre tenuto alla larga.
Ed è proprio nella sua riflessione di quegli anni che sta il
fulcro di questo libro. In un periodo storico dove si può tornare a discutere
anche del fascismo, accennare al discorso della lotta armata senza partire da
una condanna senza sé e senza ma, significa avere contro il dito puntato di
tutti. “Chiamarci terroristi va bene a tutti, anche se noi non abbiamo mai
colpito alla cieca, né ammazzato passanti, turisti, impiegati di banca,
studenti innamorati. Tra terrorismo e lotta armata c'è una differenza abissale,
ma a ribadirla oggi si rischia il linciaggio” (p. 98).
Eppure questo libro non è di certo un manifesto della lotta
armata. Qui si torna alla frase di Carlotto. Finito di leggerlo c'è il bisogno
di fermarsi a parlare di quegli anni. Si ha voglia di parlare di quello che si
racconta e che rappresenta un pezzo della nostra storia, raccontato da chi
quella storia l’ha vissuta. Una storia fatta di scelte nette, che non ammettono
vie di mezzo né ripensamenti. C'è il bisogno, la voglia, di immergersi ed
immedesimarsi in quelle scelte. Calarsi dentro quei sogni che assomigliavano
così tanto a dolci utopie da inseguire. Chiedersi se fosse quello il modo, la
strada giusta, per raggiungerle.
Perché quello che ci fu in quegli anni fu essenzialmente
questo: lottare per raggiungere il proprio orizzonte. E “L'amore degli insorti”
di questo tentativo parla. Senza partire da giudizi né condanne. Merce rara di
questi tempi ma, soprattutto, unico modo per parlare – laicamente – di una fase
così complessa delle nostre vite.